Lo stile di House of the Dragon, ep. 2
Scelte di regia e impatto visivo del prequel di Game of Thrones
Questo articolo su House of the Dragon esiste anche in formato audio per il podcast Attraverso Lo Schermo. Lo trovate su tutte le piattaforme principali.
È stato un po’ uno shock, assistere all’inizio di questa puntata. Arriva la solita schermata del logo HBO, e subito dopo, zac! Il tema musicale che noi fan conosciamo così bene da essersi inscritto nel nostro dna: quello di Game of Thrones.
Come dicevo nell’episodio precedente del podcast Attraverso Lo Schermo, sospettavo che questa settimana avremmo visto i veri titoli di testa. Online si è speculato su cosa avrebbero potuto contenere. In molti erano d’accordo sul fatto che avrebbero presentato l’albero genealogico dei Targaryen, predizione che si è realizzata. Altri dicevano che il tema musicale sarebbe stato quello della sigla di Game of Thrones. A me sembrava improbabile, perché davo per scontata la necessità di affermare la propria individualità per questo nuovo show.
Essendo una derivazione di Game of Thrones, pensavo che House of the Dragon avrebbe fornito la sua versione di un eventuale titolo di testa animato. Non avevo capito che invece il problema che si pone House of the Dragon è invece quello di ricordarci quanto sia strettamente legata alla serie madre.
Mi faccio una domanda: non è che il nuovo show deve continuamente ricordarci questa origine perché in realtà si allontana da Game of Thrones sotto tantissimi altri aspetti?
La prima puntata raggiungeva il suo picco con una replica piuttosto fedele della brutalità con cui Game of Thrones ci aveva raccontato le sue storie. Nella mia analisi della scorsa settimana, ho sottolineato come House of the Dragon sembri invece aver perso l’umorismo che pervadeva tutta la serie originale.
Il secondo episodio conferma questa ipotesi, ma approfondisce l’aspetto che oggi mi interessa di più. Ovvero: che cosa ha di personale House of the Dragon? E come dialoga con le sue origini?
I titoli di testa sono ricalcati sull’animazione che apriva Game of Thrones, però la loro natura è diversa. Questa sigla è meno immediata e meno leggibile. È un rebus da decodificare, una miniera di easter egg, sorprese nascoste che fanno riferimento a un sapere esoterico del fandom, di chi ha letto i libri e conosce a menadito la storia della famiglia Targaryen.
Mentre le immagini della sigla di Game of Thrones servivano a spiegare più chiaramente la mappa su cui avremmo visto svolgersi gli eventi delle puntate, i titoli di House of the Dragon sono un testo sibillino che rimanda all’esterno. Il sangue dei Targaryen si spande in un intrico di brutta computer grafica; allo stesso modo, le informazioni che questo sangue nasconde sono sparpagliate per la rete.
Potremmo dire che sono dei titoli fortemente gamificati: sono una specie di gioco, un puzzle game per appassionati. Quel sangue che attiva i sigilli richiama la struttura di un videogioco, in cui solitamente si devono sbloccare dei meccanismi per passare di livello.
Cosa ci dice la sigla sulla natura di House of the Dragon? Secondo me, i titoli ci parlano di una serie strettamente rivolta al pubblico di Game of Thrones, un pubblico già esperto, che ne ama l’universo narrativo e non vede l’ora di tuffarcisi dentro, qualsiasi cosa la serie abbia da offrire.
Parte dell’intrattenimento in questo caso sta proprio nel vedere come è stato adattato il libro. A differenza di Game of Thrones, il nucleo del fandom questa volta sa già come finisce la storia della Danza dei Draghi, perché la sua conclusione è contenuta nel volume pubblicato nel 2018.
Anzi, se per caso state facendo un rewatch di Game of Thrones, occhio agli spoiler: la mitologia dei Targaryen viene spesso menzionata. E quei nomi che una volta non vi dicevano nulla, oggi sono quelli dei protagonisti del nuovo show. Ci sono dialoghi di Game of Thrones che rivelano alcuni dei fatti salienti a cui andiamo incontro con House of the Dragon, compreso quello che credo diventerà il finale.
L’approccio di House of the Dragon che potremmo definire “più accademico” si riscontra in come sono impostati i dialoghi. L’esposizione non è mai mancata nemmeno in Game of Thrones, ma lì era più misurata grazie a una scrittura dei dialoghi curatissima, che oggi le produzioni streaming non si possono più permettere. C’è poco tempo; poco budget; a volte persino poco mestiere. Bisogna saltare tante fasi una volta considerate fondamentali, per andare subito al punto. Come diceva René Ferretti, dai dai dai!
È una tendenza che in House of the Dragon si traduce con una certa pigrizia nell’esporre le questioni più tecniche della politica di Westeros, senza infiocchettarle con dialoghi brillanti che tengano alto il ritmo. È davvero una grossa differenza, rispetto alla serie madre, della quale mi dispiaccio.
Ma quando parlo dell’umorismo di Game of Thrones, non intendo solo la presenza di linee comiche (che sono comunque più abbondanti di quanto probabilmente vi ricordiate). C’è uno humor nefasto in tutto ciò che accade nella serie originale. Sono proprio le stesse dinamiche tra personaggi e gli snodi della vicenda, a prendere vita da un umorismo perverso che tiene tutto insieme.
In House of the Dragon non è che questi elementi manchino del tutto. La prima puntata rispecchiava una certa classicità nella feroce ironia drammatica della vicenda della regina Aemma e della mancanza di eredi maschi.
Lo stile visivo si fa però molto più personale, con soluzioni che non venivano adottate in Game of Thrones e che diventano un marchio di fabbrica in House of the Dragon. Una è l’uso dello sfondo sfocato, che abbiamo già visto più volte in entrambi gli episodi. Nel primo, salta all’occhio nella scena in cui viene presentato il personaggio di Daemon, dove l’attore seduto sul trono di spade è l’unico elemento a fuoco nell’inquadratura.
Nella seconda puntata, l’effetto viene subito utilizzato nelle sequenze dopo la sigla, in cui si introducono i misfatti del pirata Crabfeeder. Vediamo i suoi famosi granchi all’opera sui poveri marinai che ha catturato.
Sono scene che sembrano uscite da una bella tavola di fumetti. Hanno una resa visiva quasi pittorica, qualcosa che raramente abbiamo trovato in Game of Thrones, che adottava uno stile visuale più nitido.
Quella della serie madre era una televisione con altri parametri: era per l’appunto televisione nel senso letterale. House of the Dragon se la gioca a metà tra la tv e lo streaming, in un’epoca in cui sono cambiati i parametri di luce e colore. In quell’ambito, penso che House of the Dragon le stia cavando egregiamente nel distinguersi rispetto alla piattezza dei parametri imposti da Netflix e Amazon alle sue serie originali.
La differenza nello stile visivo rispetto a Game of Thrones è talmente grande che a volte è difficile riconoscere luoghi familiari come Approdo del Re. È una scelta assolutamente deliberata, compiuta per rimarcare la personalità di House of the Dragon. Anche la prima inquadratura su Dragonstone denota diversità: nonostante Game of Thrones ci abbia regalato tanti momenti fin troppo dark, una Roccia del Drago così nebbiosa e lugubre non l’avevamo ancora vista.
Prima di parlare del racconto in sé, vorrei farvi notare un’altra differenza fondamentale in come viene realizzata House of the Dragon. La serie ha una sua cadenza specifica, come un accento. Si tratta di un ritmo dilatato, conferito dall’uso del silenzio, più abbondante e rarefatto rispetto a Game of Thrones, e dal modo in cui i personaggi sono inquadrati e interagiscono tra loro.
Spesso, al posto di una colonna sonora, sentiamo solo il cinguettare degli uccelli. C’è una fortissima aderenza della camera alle traiettorie degli sguardi dei personaggi, che trasmette un senso di intimità. Ci sono delle pause tra una battuta e l’altra, per lasciar respirare questi sguardi. Le inquadrature spesso si allontanano dai soggetti e includono grandi porzioni dell’ambiente circostante, oppure fanno movimenti lenti e studiati. Ha un grande rilievo la luce, che entra dalle finestre o si spande dal fuoco; a volte definisce le sagome dei personaggi, ma spesso li offusca attraverso le nebbie eteree che caratterizzano queste prime puntate.
Il risultato complessivo dipende tutto dal montaggio e dalla combinazione delle altre scelte di regia e direzione artistica. Lo trovo un ritmo più vicino a serie austere come Better Call Saul, mentre Game of Thrones usava uno stile concitato, lineare, più schematico. Game of Thrones vinceva il confronto nel campo dei beat narrativi, per la precisione con cui venivano cesellati.
House of the Dragon trasferisce quella ricercatezza nella costruzione visuale delle scene. Ma non si tratta di pura estetica: sono scelte funzionali al racconto. Guardando questi episodi, a tratti li ho immaginati direttamente senza parole, come dei film muti, per la potenza espressiva della tecnica con cui sono realizzati.
Lo stile di House of the Dragon è molto personale, acuto in maniera sommessa, meno roboante. Lo spazio che House of the Dragon crea con questa sua caratteristica viene abitato da una gran quantità di dettagli, di suggestioni visive, di sottotesti su cui riflettere. C’è molto di più di quello che salta all’occhio a un primo sguardo, esattamente come nei suoi titoli di testa.
Dal punto di vista dei fatti narrati, uno degli aspetti che mi colpiscono di più di questa puntata è come alla fine si concentri sul rapporto tra un padre e una figlia quindicenne al di là della natura di fantasy in costume della serie.
Da un verso, ciò rompe un po’ l’incantesimo. Eppure, questa normalizzazione ci avvicina umanamente ai soggetti protagonisti. Anche Game of Thrones era spesso una storia di padri e figli (pensate alla parabola dei tre Lannister rispetto all’autorità di Tywin). Non c’era la ricerca di normalità, in quel caso, quanto piuttosto lo spingere all’estremo le conseguenze di conflitti altrimenti universali. Forse preferisco quell’inclinazione, ma trovo interessante che House of the Dragon intraprenda un percorso differente.
Il nodo centrale dell’episodio è la scelta di una nuova moglie per il re. Ancora una volta, si riprende l’attitudine allo shock tipica di Game of Thrones, ma la si gioca in modo nuovo. Il disgusto suscitato dall’idea che Viserys, uomo di mezz’età, potrebbe sposare Laena, una ragazzina di 12 anni, viene giocato ponendo la fisicità della bambina al centro della scena di fianco a lui. Non ha bisogno di commenti. È un elemento che viene presentato nella sua grandiosità senza parole. O meglio, le parole ci sono, c’è un dialogo in corso tra i due, ma non riusciamo neanche a seguirlo da quanto è ributtante l’idea che ci stanno suggerendo.
Il sentimento del pubblico è corrispondente a quello del personaggio, il re, che non ha nessun desiderio di sposare questa bambina. Io però intravedo ancora una volta l’ironia feroce di Game of Thrones nel fatto che re Viserys ritenga invece appropriato il matrimonio con l’adolescente Alicent, amica e alter ego della sua stessa figlia. Le mani dilaniate dal nervosismo di Alicent sono un dettaglio ricorrente in entrambi gli episodi. Sottolineano la costrizione e il tormento di una ragazza spinta alla maturazione sessuale non dall’istinto, ma dalla richiesta del suo perfido padre, Lord Hightower.
Il picco dell’episodio viene raggiunto nella scena sul ponte a Dragonstone, col confronto prima tra Daemon e Hightower, e infine tra Daemon e Rhaenyra. La sequenza contiene tutto ciò di cui vi parlavo prima, dall’impressione pittorica fino al raccontare una storia che si spinge oltre alle parole che vengono pronunciate.
Per quanto Milly Alcock sia una presenza sempre intensissima, in questa puntata le rubano la scena gli uomini. In particolare Matt Smith, che in House of the Dragon riesce a dotare Daemon di una tante sfaccettature anche solo grazie a un movimento della testa, un’increspatura del viso o all’inflessione che dà a una battuta. Lo contrasta la malvagità granitica di Rhys Ifans, l’attore gallese che interpreta Otto Hightower.
Per concludere, penso che lo stile di House of the Dragon sia profondamente diverso da quello di Game of Thrones. Soddisfa un altro tipo di esigenza. Non sarà mai l’entry level per un pubblico a digiuno dalla serie madre. Non ha quel tipo di carisma, né cerca di emularlo.
Non ne ha bisogno: la nostra attenzione è già stata catturata da quello che ha preceduto lo show. Ciò ci predispone a entrare in sintonia con un’opera meno concitata, meno gridata, e forse anche un po’ meno appassionante. Ma non per questo, di cattiva qualità.
Per questa settimana è tutto; vediamo dove ci porterà lo stile personale di House of the Dragon nei prossimi episodi.