Westworld come Lost: le teorie

Spunti e riflessioni sulla serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy

Sara Mazzoni

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Ho scritto del pilot di Westworld in questo post su Cinema Errante, parlando della fantascienza che mi ha richiamato alla mente. Ne continuo a parlare qui, concedendomi qualche analisi e indugiando in quell’attività che ci rendeva così felici ai tempi di Lost: le teorie.

A proposito di Lost, nella seconda puntata di Westworld ho avuto la sensazione che la scrittura iniziasse a ricordarlo un po’ di più. I personaggi paiono già divisi in Losties, Others e Dharma Initiative: qui abbiamo Hosts, Newcomers e gli scienziati della Delos. Lost è caratterizzato dal racconto corale che mette a fuoco un personaggio diverso in ogni puntata. Westworld per adesso non è così, ma l’episodio 2, intitolato Chestnut, ha parzialmente applicato la formula al personaggio di Maeve Millay (Thandie Newton), matrona del bordello.

Maeve

Maeve non è il solo personaggio importante in questo episodio — c’è anche William (Jimmi Simpson), il Newcomer novellino col cappello bianco, fresco ed empatico. Ma la storia che dà il ritmo alla puntata è quella di Maeve. La sua presenza richiama il pilot, dove la protagonista assoluta era Dolores Abernathy, l’Host interpretata da Evan Rachel Wood (il robot più antico, probabile leader della rivolta). Qui Maeve è l’alter ego di Dolores: come lei, viene spogliata e interrogata in laboratorio; durante l’episodio siamo guidati a entrare nella sua prospettiva e a preoccuparci per lei; e c’è la minaccia del suo ritiro/uccisione — scongiurata dalla scienziata Elsie Hughes (Shannon Woodward), quella che nel pilot baciava la terza Host femmina, Clementine Pennyfeather (Angela Sarafyan).

Con la storia di Maeve, ci addentriamo dentro al personaggio. Non solo siamo angosciati per la sua sorte, ma insieme a lei esploriamo dei frammenti di flashback, perché Maeve ricorda qualcosa che le è successo in quella che forse è una sua precedente incarnazione da Host. Rispetto al pilot, abbiamo per protagonista una donna non bianca, posta nella stessa situazione di schiavitù e impotenza in cui si trovava Dolores. Nera, postumana e sex worker, Maeve è una grande outsider e un personaggio fantascientifico per cui è impossibile non tifare.

Passando invece alla speculazione, devo ricordarvi che le teorie non sono spoiler, ma possono diventarlo nel momento in cui sono azzeccate. Per me, il ragionare su serie tv costruite come enigmi è parte integrante del divertimento che provo nel seguirle, e considero l’apparato online di post, sondaggi e teorizzazioni come appartenenti al testo serie televisiva. Se però non la pensate come me, prendete in considerazione di non proseguire la lettura del post, perché da qui in avanti parte la speculazione.

Da quando ho visto il pilot, c’è una teoria che mi frulla per la testa. È piuttosto banale, è una delle meno quotate. È un luogo comune usato così tanto nella fantascienza da rendere poco credibile che una serie come Westworld lo stia facendo. Eppure… Per me è probabile che il mondo che vediamo in Westworld non sia un mondo fisico, ma un mondo digitale. Gli scienziati Delos potrebbero non esserne consci, almeno non tutti. O magari lo sono, ma in quel caso scommetto che il mondo digitale nasconde una parte della sua realtà agli scienziati (misteri misteriosi anche in salsa digitale, insomma).

Negli ultimi anni c’è stata parecchia fantascienza che ha visto umani e postumani scaricare loro stessi in mondo digitali. Spesso sono proprio le intelligenze artificiali, magari post singolarità, a fare quell’esperienza. Di base, quando si parla di I. A. si arriva a parlare di transumanesimo e postumanesimo, insomma, di realtà futuribili in cui l’Homo Sapiens è stato superato, e non ha più così tanta importanza distinguere tra intelligenza naturale e artificiale. E il postumano potrebbe non avere la necessità di vivere in un mondo tangibile. Faccio fatica a credere che Joy e Nolan non abbiano pensato a queste cose.

Due esempi che ho letto di recente dove transumanesimo e mondi non fisici sono collegati li trovate in Greg Egan con La scala di Schild e Charles Stross con Accelerando; ma preferirei soffermarmi su paragoni non letterari, più vicini al mondo seriale e più generalista di un prodotto HBO. Mi viene in mente qualcosa come Caprica, che pur essendo andato in onda su un canale per appassionati (SyFy), è pur sempre la serie prequel di un successo trasversale come Battlestar Galactica (che presto sarà adattato a film proprio da Lisa Joy). I 18 episodi di Caprica parlano proprio di intelligenza artificiale e di un mondo virtuale che potrebbe essere il nirvana di menti non più umane, uploadate all’immortalità.

New Cap City in Caprica

Westworld è una serie sci-fi del 2016 che parla di intelligenza artificiale e di un mondo inventato apposta per essere giocato come un videogame. Con tutte queste premesse, ci rimarrei piuttosto male se Nolan e Joy davvero avessero evitato di prendere in considerazione un piano di realtà ambientato in un mondo che non sia fisico.

Molti fan teorizzano che alcuni degli scienziati di Westworld siano anch’essi robot inconsapevoli. Il riferimento più immediato è il solito Blade Runner, ma in questo caso si sente fortissimo il richiamo alla fonte: Philip K. Dick, autore di decine di romanzi basati sulla confusione e sul dubbio relativo ai piani della realtà. In Westworld, c’è una scena che a me pare un’indicazione in questo senso: l’interrogatorio che il dottor Robert Ford (Sir Anthony Hopkins) — scienziato creatore dei robot e del loro parco — conduce sull’androide malfunzionante Abernathy padre. “You don’t know where you are, do you? You’re in a prison of your own sins”, dice Abernathy a Ford, sembrando a un tratto più consapevole della realtà rispetto allo scienziato stesso.

Ci domandiamo se gli androidi sognino davvero pecore elettriche, perché il motivo ricorrente delle prime due puntate è legato ai risvegli di Dolores e Maeve, e, nel caso di Maeve, anche ai suoi sogni e ai suoi incubi. Proprio nell’interrogatorio a Dolores, all’inizio del pilot, la prima cosa che viene detta al robot è che si trova in un sogno.

Insomma, ci viene fatto continuamente notare che la realtà percepita dai robot è limitata a una porzione del tutto; ma penso che la vera funzione narrativa degli Host sia quella di rappresentare tutti, umani e postumani; persone/personaggi che non sono consapevoli di cosa sia davvero il mondo in cui sono immersi, ma che iniziano a percepire l’esistenza di qualcosa di ulteriore (ne è un ottimo esempio la quest di Man in Black, di cui parlerò quando la stagione sarà più matura). In quest’ottica, il risveglio di Dolores rappresenta la sua nuova coscienza, ma contemporaneamente sottolinea l’esistenza di vari livelli di realtà.

Le prime due puntate sono costellate da piccoli episodi che se letti didascalicamente possone essere indizi. Sembrano artifici visivi, o scelte linguistiche apparentemente ovvie, che possono essere anche interpretati come una chiave per decodificare gli enigmi della serie.

Per esempio, nel primo episodio vediamo il canyon dove risiede il parco divertimenti trasformarsi con una carrellata nel plastico usato dai tecnici per controllare Westworld. Mi ha fatto pensare a I giorni di Perky Pat e a Le tre stimmate di Palmer Eldritch di Phil Dick, dove i modellini sono usati dai personaggi per immergersi in un altro mondo che non è fisicamente tangibile. L’artificio visivo scelto nella prima puntata ci proietta fuori dal plastico nella realtà “vera”, ma suggerisce con forza che quanto visto prima stesse accadendo proprio dentro al plastico stesso. Sarà il mio background dickiano a parlare, ma per me non è istintivamente ovvio considerare quel plastico un semplice strumento in scala usato per monitorare, una mappa 3D. E se invece fosse proprio quel plastico, che per altro è una proiezione digitale, il vero indizio della vera natura del parco di Westworld?

Ma se è un mondo digitale, allora perché assistiamo alla costruzione dei robot? Per me, la risposta è che tutto il mondo che vediamo è digitale, non solamente il parco. Niente di quello che vediamo esiste fisicamente. Il parco dei robot è un pezzo della narrazione di un mondo virtuale che contiene l’intero universo mostrato dalla serie tv. Anche lì, i suoi attori non devono essere necessariamente consapevoli; possono credere di vivere in un mondo fisico, e non avere motivo per ritenere il contrario. Oppure lo sanno, e i laboratori in cui vengono costruiti i robot sono semplicemente interfacce di un software che usa un’ingannevole rappresentazione naturalistica, con delle stampanti 3D che in realtà sono fatte di pixel. Quando guardo quelle scene, ho la sensazione di assistere alla modellazione grafica di un potente programma fatto per costruire personaggi di un videogame.

Nel secondo episodio c’è un altro artificio secondo me simile a quello usato per mostrare il plastico. Quando il Newcomer William entra nel parco, apre una porta dentro la base “reale” di Westworld, e come per magia si trova su un treno del vecchio West, che, sempre magicamente, inizia a muoversi. È un passaggio che mi aspetterei da un videogame, da un’architettura digitale, più che da una stanza vera e propria; o semmai dalla tana del Bianconiglio di Alice.

Teoria per teoria, butto un altro azzardo. Proviamo a seguire questa logica degli “indizi in piena vista”, interpretando gli artifici narrativi come non metaforici; ripenso allora al dialogo iniziale del pilot, dove Dolores parla con uno scienziato dei Newcomers. Lo spettatore sente dire che esistono dei misteriosi “nuovi arrivati”; Dolores afferma: “sono come noi, cercano la stessa cosa: un luogo dove sentirsi liberi”. A me, lì per lì, ha fatto pensare che la Terra fosse diventata una colonia aliena, e i Newcomers fossero visitatori da un altro pianeta. Tutto quello che vediamo dopo sposta l’interpretazione su altri discorsi, perché Dolores si rivela essere un robot e capiamo la natura di Westworld che è un parco, eccetera.

Eppure non sappiamo niente del mondo fuori dal parco; non sappiamo se è sulla Terra, su un’astronave o altrove; e soprattutto non sappiamo chi siano davvero i personaggi che vediamo. Come penso io, potrebbero essere avatar in una realtà digitale, tant’è che i visitatori non possono essere colpiti dai proiettili: fenomeno più sensato in un mondo software che in un mondo fisico. Ma nulla vieta che i Newcomers siano alieni che usano avatar umanoidi; oppure addirittura intelligenze artificiali consapevoli, perché l’Homo Sapiens non esiste (più) nel luogo e nel tempo in cui si trova Westworld.

Per chi ama le teorie, ce n’è per tutti i gusti. Qui trovate una prima rassegna:

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Sara Mazzoni
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Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

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