Ultime visioni, novembre 2017
The Bad Batch, The Booth at the End, Ingrid Goes West
The Bad Batch
di Ana Lily Armipour (2016)
Presentato a Venezia l’anno scorso, The Bad Batch di Ana Lily Armipour ha cominciato a girare in modi più o meno legali già mesi e mesi fa, finché a settembre è uscito su Netflix. È una storia ambientata in un deserto post-apocalittico dove una ragazza se la deve cavare in mezzo a culturisti cannibali e altre amenità. Pur conoscendolo di fama, l’ho guardato solo la settimana scorsa. Ci ho messo tanto a vederlo perché ne avevo sentito parlare molto male. Le critiche, in sintesi, sono che sia un film pretenzioso, pieno di simbolismi stupidini e troppo lento. Insomma, le critiche spesso mosse a film che tentano una strada sperimentale rispetto a un canone, magari di genere, più convenzionale e rassicurante. È vero che film di questo tipo a volte sono davvero pretenziosi, pallosi e persino un po’ idioti? Sì, è verissimo. A chiunque viene in mente qualche titolo, così su due piedi, che corrisponde a questa descrizione.
È vero anche che quando si sente parlare di un film prima di vederlo, si tende a essere prevenuti in quel modo facile da ribaltare: se ne parlano come di un capolavoro, magari si finisce per provare un senso di delusione davanti a quello che è soltanto un buon film. Nel caso di The Bad Batch, mi sono chiesta se il mio gradimento non fosse influenzato da un pregiudizio in reverse dell’altro tipo: dicono che è una schifezza, poi quando lo vedo scopro che tutto sommato non è mica così male.
La risposta è che le critiche negative e le accuse di pretenziosità mi avevano predisposta a un film decisamente peggiore a quello che The Bad Batch è in realtà. I simbolismi a caso in virtù dei quali si dice che il film sia pretezioso in effetti ci sono; ma sono solo dettagli, che si perdono dentro a un contenitore più grande e più affascinante. Quello di cui non avevo sentito parlare dai detrattori è invece la carica suggestiva dell’ambientazione, il modo in cui Ana Lily Armipour ha costruito il suo mondo e la sua storia usando pochissime parole e moltissimo cinema, la perfezione estetica e l’incredibile uso degli effetti speciali che fanno perdere alla protagonista ben due arti (braccio e stinco), cancellati grazie a un accrocchio di CGI e make up. The Bad Batch èun film lisergico che mi ha proiettata indietro di 20 anni a quando, adolescente, mi guardavo i film di Fuori Orario su RaiTre.
Il mio consiglio è di non guardarlo aspettandovi un film di genere, una distopia post-apocalittica o una storia ispirata a Mad Max, perché allora passereste il tempo attendendo qualcosa che non arriva mai. Guardatelo invece come un trip notturno, siate disponibili a farvi risucchiare.
The Booth at the End
Stagione 1, creata da Christopher Kubasik (2010)
Anche questa su Netflix, ce l’avevo in lista da un anno ma non mi era mai venuta veramente voglia di cliccare play. Poi è uscito il film di Paolo Genovese The Place, e ho scoperto che si tratta dell’adattamento della prima stagione di questa serie televisiva americana.
Strana faccenda. Una serie USA di cui non si è sentito molto parlare; il passaggio da tv a cinema, e non il contrario; un adattamento italiano di roba americana. Dovevo controllare.
Esistono solo due stagioni di The Booth at the End e solo la prima è su Netflix. L’ho guardata. Sono 5 episodi da 22 minuti, tutta insieme dura come il film di Genovese. La serie è una di quelle cose che in teoria piacciono molto ai produttori, poste in gioco altissime per i protagonisti e budget richiesti bassissimi. La premessa è questa: c’è un uomo che sta sempre seduto in un certo bar; la gente va da lui, parlano. Per via di una premesse molto da The Twilight Zone, quest’uomo è in grado di far realizzare le cose che le persone gli chiedono. Perché ciò accada i suoi clienti dovranno svolgere un certo compito che l’uomo assegna loro sbirciando in un quaderno sul quale prende appunti tutto il tempo.
È buono, è cattivo, è Satana? Le persone faranno davvero le cose richieste? Tutto è mostrato soltanto attraverso i dialoghi a due, al tavolo del bar. Potrebbe essere un dramma radiofonico, non cambierebbe una virgola.
Funziona? Sì, funziona, appassiona, per di più il tutto è breve, cosa pregevole in una serie interamente basata sul dialogo tra due persone sedute a un tavolino. Mi è rimasta la voglia di guardare l’adattamento italiano? Ecco, non molto. Scegliete prima quale volete vedere, se quello nostrano o l’originale, perché arrivati in fondo lo avrete consumato per sempre.
Ingrid Goes West
di Matt Spicer (2017)
Da quando sono iscritta a Letterboxd, un social network di cinema, mi capita di guardare certi film perché diventano popolari sulla piattaforma e finiscono per incuriosirmi. Nel caso di Ingrid Goes West non è che ci volesse molto: ha una locandina bellissima, c’è Aubrey Plaza, e il film è una commedia nera con virate di thriller psicologico. Parla di una stalker, ovviamente interpretata da Plaza con la sua faccina rilassata, che si ossessiona per Elizabeth Olsen, una che posta tutto quello che fa su Instagram per far vedere quanto è glamour la sua vita a Los Angeles.
Il dato che non avevo messo in conto è quanto questa dark comedy sia ricalcata su uno dei miei film preferiti di tutti i tempi, Il talento di Mr Ripley (1999). Ciò mi ha spiazzata, perché è diventato difficile essere obiettiva, rischiando un effetto negativo per il film di quest’anno. Mr Ripley, adattamento del romanzo di Patricia Highsmith, è per me stato un punto di riferimento per quasi 20 anni, un posto in cui tornare e sentirsi a casa. Perché mi piace la gente un po’ a disagio con se stessa e Ripley è sempre stato il rappresentante perfetto di questa difficoltà portata agli estremi.
Nella storia di Ingrid Goes West ci sono esattamente tutti gli stessi elementi, trasposti su una donna, Ingrid, e il suo corrispettivo dorato, l’influencer Taylor Sloane. Nel film ritroviamo la stessa ossessione malata di Ripley, la voglia di emanciparsi da una condizione esistenziale miserevole attraverso l’immersione in un mondo patinato di cui non potrà davvero fare mai parte. Il tutto spinto ai limiti dalla malattia mentale. Non solo. In Ingrid Goes West c’è l’ambientazione californiana, a ricordare il sole di Mongibello sotto al quale Ripley e Dickie scorrazzavano durante loro schermaglia umana. C’è un antagonista palesemente ricalcato sul personaggio di Freddie Miles, c’è persino un fidanzato inconsapevole del personaggio principale e un marito innocuo dell’oggetto del desiderio di Ingrid. La storia si dipana in modo estremamente simile all’arco di Ripley, con una differenza importantissima: Ingrid Goes West, per quanto dark, è pur sempre una commedia, e non un thriller psicologico dai risvolti puramente drammatici.
E quindi le cose che accadono non sono le stesse e non sono altrettanto gravi, per quanto alla fine abbiano la stessa funzione. Per questo dico che per me è piuttosto difficile giudicare il film in modo obiettivo. Ma facendo uno sforzo, posso dire che Ingrid Goes West fa almeno una cosa che lo porta oltre l’essere “la versione femminile di Ripley nell’era di Instagram”: definisce la protagonista attraverso la sua malattia mentale in modo non romantico, che non la trasforma in un’eroina maledetta, ma contemporaneamente non ci fa mai smettere di empatizzare con lei.
Il film è simpatico e ha una colonna sonora curiosa, insolita per una commedia indipendente ambientata a Los Angeles: suona tutto un po’ come un film di Natale musicato da Danny Elfman, con un effetto estraniante che ben si accompagna alla psicosi di Ingrid.