Thomas Ligotti in Nato nella paura

Le interviste allo scrittore horror

Sara Mazzoni
6 min readApr 29, 2020

Sto leggendo Nato nella paura, una raccolta di interviste allo scrittore horror Thomas Ligotti, che ha raggiunto il mainstream venendo più o meno citato/plagiato nella prima stagione di True Detective. Di Ligotti autore di fiction non sono particolarmente fan: ho letto metà di Teatro grottesco quando è uscito in italiano, ma mi sono stufata prima della fine. Le sue interviste invece mi mettono una certa nefasta allegria. Sono un concentrato di pessimismo e negatività, a tratti davvero rinfrancante per il mio spirito esausto. In queste conversazioni Ligotti ripete spesso le stesse cose, ma ogni volta in modo leggermente diverso. Di solito è passato qualche anno e la sua prospettiva è cambiata. L’aspetto più toccante è come Ligotti parli con franchezza delle proprie malattie mentali. La stessa franchezza spesso appare anche quando parla della scrittura, che collega all’esperienza della depressione. Quando parla di letteratura diventa più ordinario, più nascosto dalle maschere e dalle categorie del gusto.

Lungo l’intero libro c’è una specie di sottotrama che mi ha affascinata da subito, quella che riguarda una sua novella intitolata My Work Is Not Yet Done. Si tratta di un racconto di orrore aziendale pubblicato nel 2002. Viene menzionato spesso perché pare essere una deviazione rispetto allo stile abituale di Ligotti, che è lirico e surreale — a mio avviso un po’ troppo vicino a un realismo magico che mi fa storcere il naso (o almeno, questo pensai nel 2015 davanti a Teatro grottesco, ma prima o poi ci riproverò). Non ho letto My Work Is Not Yet Done, ma forse è più interessante l’aura che viene fuori se non lo si conosce e se ne sente solo parlare come accade in Nato nella paura.

La prima volta che viene nominato, l’intervistatore chiarisce che My Work Is Not Yet Done è scritto in modo più convenzionale rispetto al solito Ligotti, che «l’ambientazione è “normale” e ai personaggi capitano eventi “normali”». Un altro fa notare come Ligotti descrivesse «in maniera molto convincente e quasi dolorosamente realistica la vita quotidiana in una grossissima azienda». Fin lì, io mi immaginavo qualcosa che remixasse David Foster Wallace, Michel Houellebecq e Clive Barker — e chissà, magari è davvero così. Ligotti nel 2003 dice di essere stato spinto a scrivere quel racconto dall’«odio verso il sistema nella sua più ampia accezione possibile» e poi rimane molto sul vago, spostando il discorso sull’orrore esistenziale in genere.

Ma My Work Is Not Yet Done rimane qualcosa che non si riesce mai ad afferrare attraverso le parole che lo descrivono nelle interviste fatte a ridosso della sua pubblicazione. Sempre nel 2003, l’intervistatore rammenta che Ligotti ha paragonato il racconto alle strisce a fumetto di Dilbert, il che nella mia testa sposta tutto su un piano più fantozziano che puramente horror — e sì, Dilbert e Fantozzi descrivono un mondo senza speranza, di miseria esistenziale, ma non sgrondano sangue e viscere a destra e a manca.

Poche battute più in là, trascinato in una discussione sulla dimensione autobiografica di My Work Is Not Yet Done, Ligotti ci tiene a precisare che «non ci sono legami diretti tra i personaggi e gli eventi descritti nelle storie e quelli della mia vita». Sul momento non ho fatto caso a questa frase, ma verso la fine del libro mi è diventata più chiara la necessità di Ligotti nel pronunciarla. All’epoca della pubblicazione, sembra che Ligotti cercasse in ogni modo di ricacciare in fondo all’armadio la connessione tra quello che aveva scritto e la sua vita personale. «My Work Is Not Yet Done sfrutta il sistema aziendale soltanto come punto di partenza per descrivere l’onnicomprensivo sistema dell’esistenza umana — anzi, di tutta l’esistenza organica — in quanto fondamentalmente e inevitabilmente maligno».

Eppure, si sente che sotto c’è qualcos’altro. Va da sé: parla di orrore aziendale, ammette che i racconti di quel periodo «siano stati scritti come reazione alla mia esperienza personale». Nel 2006, Ligotti riesce a parlare più apertamente di My Work Is Not Yet Done e dice che quei racconti sono nati da fantasie di violenza che lo ossessionavano all’epoca. Spiega di aver «scelto consapevolmente di non stabilire in anticipo come sarebbero stati ammazzati i personaggi di My Work Is Not Yet Done: così non vedevo l’ora di scoprirlo». Insomma, col passare degli anni, ogni volta che Ligotti parla di quella novella, viene fuori un dettaglio più inquietante sulla vicenda autobiografica che l’ha prodotto. Nel 2009 aggiunge un altro tassello: «la storia del personaggio principale era più o meno la storia dei guai che stavo patendo all’epoca sul posto di lavoro».

In quell’intervista, il suo resoconto diventa davvero spaventoso, molto più dei suoi racconti di fiction, almeno di quelli che ho letto: «Come si suol dire, quando l’ho scritto non ero in me. Ero Frank Dominio, il protagonista della storia. E volevo davvero uccidere un certo gruppo di miei colleghi. Ci pensavo di continuo. Non mi era mai capitato niente di simile in vita mia. Avere dei nemici era una novità assoluta. Forse se avessi saputo cosa vuol dire avere dei nemici non avrei reagito, in modo forse esagerato, alla situazione in cui mi ritrovavo. Provare tutto quell’odio squilibrato mi ha travolto».

Continua: «Da buon liberal, ho sempre diretto il mio livore verso i sistemi piuttosto che gli individui: la gente era riprovevole soltanto perché schiava di uno stato di cose riprovevole. Perciò non sapevo come gestire le mie emozioni. Naturalmente esitavo a mettere in atto i miei piani, perché avrei rovinato la vita di persone che a me ci tenevano. Io non ci tenevo, a me stesso. Ho progettato tutto come strage-più-suicidio, magari facendomi ammazzare da un poliziotto. Sul piano tattico, il grosso ostacolo tra me e il massacro era radunare tutte le vittime nello stesso posto, per esempio organizzando una riunione. Covavo un certo generico rancore per com’era peggiorato il clima aziendale degli anni novanta. Ma il punto specifico era massacrare un gruppo preciso di individui, e mai e poi mai avrei voluto diventare uno di quei pluriomicidi che si abbandonano al raptus, ammazzano gente che non c’entra nulla e non trovano i veri colpevoli che li hanno portati ad agire in modo così violento. Dove lavoravo avevo troppi amici, che avrei senz’altro coinvolto se non fossi stato preciso nell’esecuzione del mio piano. Mi sono anche reso conto di quanto poco gratificante sarebbe stata la vendetta, in fin dei conti. Ci è voluto un po’ perché questa consapevolezza si facesse largo nella rabbia maniacale. Alla fine sono giunto a una conclusione: la miglior vendetta è dimenticare. E l’ho fatto, dopo essermi licenziato. Ma durante la crisi ho prodotto My Work Is Not Yet Done, scritto molto in fretta in tre settimane. È chiaro quindi che non stavo soltanto sperimentando con del realismo formale. Stavo placando la mia sete di sangue in uno stile adatto alla mia ispirazione».

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene, e gli ex colleghi di Thomas Ligotti non si devono preoccupare assolutamente di nulla. Con questo post non voglio dire né che Ligotti sia un fighissimo principe delle tenebre, né che sia un pericoloso psicopatico. Ho trovato interessante la vicenda per tanti motivi, uno in particolare: la raccolta di interviste è pura non fiction, in cui per lo più si parla della poetica di Lovecraft e Poe e del fatto che la vita non abbia senso; eppure, in controluce è venuta fuori una vera storia di orrore esistenziale, resa evidente attraverso l’accumularsi degli anni e delle dichiarazioni di Ligotti. Uno strano sedimentarsi di malattia, violenza e dolore, che prende una forma narrativa affascinante con la registrazione delle parole di uno scrittore intervistato ogni volta che doveva promuovere un nuovo libro.

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Sara Mazzoni
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Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

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