Serie TV — Marzo 2019
The Good Fight - The OA - The Act - The Other Two
Per quanto mi riguarda, marzo è stato il mese migliore, fin qua: ritorni spettacolari, novità attesissime, e, anche se non tutto funziona, almeno si assiste al tentativo di diversificare il più possibile la tv contemporanea.
Novità
The Act, primi due episodi. Tratto da una terrificante storia vera, già celeberrima — almeno nella cronaca USA — per me era uno degli highlight del 2019 già sulla carta. Ideata e scritto da Nick Antosca (Channel Zero) insieme alla giornalista Michelle Dean, è una serie true crime realizzata come un classico gotico americano. Nei primi due episodi, diretti dall’attrice e regista francese Laure de Clermont-Tonnerre, i colori giocano in antitesi con il genere, esplorando una palette di rosa che aumenta il raccapriccio invece di sgonfiarlo. Gareggia con American Horror Story per l’uso che fa delle sue dive, mettendo a confronto Patricia Arquette con la vicina di casa Chloë Sevigny. Disturba parecchio, sia per la dimensione di abuso sottintesa nel tragico rapporto madre-figlia che descrive, sia per la presenza di questioni medicali che costituiscono la parte più horror della vicenda, uscite direttamente dal manuale dell’incubo. La fotografia è lontanissima da quella slavata e trasognata di Channel Zero, ma l’intensità del fastidio che le sue immagini possono provocare è invariata.
The Other Two, stagione 1. Alla voce: commedie che fanno ridere. Consigliatissima. Creata da Chris Kelly and Sarah Schneider, parla di due perdenti trentenni, fratello e sorella di un tredicenne che diventa una star di YouTube. Lei è Heléne Yorke (tra le varie cose, la temibile Lainey del pilot di High Maintenance, personaggio non troppo lontano da quello in scena qua). Casualmente, questa e Black Monday sono tra le commedie migliori del 2019 e hanno entrambe in comune l’attore Ken Marino in ruoli marginali ma efficacissimi. C’è anche la meravigliosa Molly Shannon nel ruolo della madre.
Leaving Neverland, miniserie in due parti. Ho guardato solo la prima puntata; e non perché questo documentario non meriti, ma perché la materia di cui tratta è particolarmente sensibile. Tutto si basa sulle testimonianze degli ex bambini “amici” di Michael Jackson che lo accusano di violenze pedofile, raccontando come si sentivano loro, come si svolgevano i fatti, quali strategie venivano usate per circuirli, come funzionava il sesso. Perché fosse importante realizzare il doc proprio in questo modo lo spiega bene Attilio Palmieri in questo articolo.
Now Apocalypse, prime due puntate. La serie creata dal regista di culto anni ’90 Gregg Araki (chi si ricorda Doom Generation talmente tagliato da Rete4 che durava un’ora?). Di film ne ha fatti parecchi anche dopo, a me era piaciuto Misterious Skin ma molti li devo ancora recuperare. Fin qui, lo show è una commedia erotica delirante con sesso alieno: potete considerarlo un pregio o un difetto, fate voi. Io lo guardo volentieri, senza che mi faccia impazzire.
Love, Death & Robots, stagione 1. Per me una delusione, ne ho parlato in prima battuta qui e poi ho concluso qua. Mentre all’estero è stata massacrata, dalle nostre parti sono stranamente usciti numerosi articoli che ne parlano bene: a mio parere, un grosso malinteso.
Shrill, stagione 1. Per ora la metto come bonus a scatola chiusa, perché devo ancora vederla, ma ha avuto delle recensioni fenomenali. Qui quella di Francesca Anelli.
Il nome della rosa. Ci ho provato, anche se molto distrattamente. NO.
The Order, pilot. Protagonista insopportabile a cui spaccherei volentieri la faccia, la prima puntata si salva giusto per un paio di gag simpatiche, ma non mi ha dato veri motivi per continuare. Non è horror, non è Buffy, non è abbastanza.
Osmosis, pilot. Nella fantascienza tv contemporanea, sembra inevitabile focalizzarsi sulle app di dating. Tutte le serie antologiche del presente lo hanno fatto, con una puntata dedicata: Black Mirror (Hang the DJ, 4x04), Dimension 404 (Matchmaker, 1x01) e Weird City (The One, 1x01). Questo show francese parte dallo stesso spunto per costruire la sua intera premessa. A differenza di If I Hadn’t Met You, di cui parlo qui sotto, Osmosis si difende molto meglio dai paragoni, soprattutto in virtù della sua direzione artistica. Le autrici si sono impegnate per costruire un’estetica con una sua identità, risonante con tutta la fantascienza indie di questo decennio. La palette dei colori è studiata e non a casaccio, la fotografia usa toni opachi sempre sull’orlo di diventare tetri, pur rimanendo morbidi; le scenografie hanno una personalità, le inquadrature sono composte in modo non casuale. Insomma, fa quello che dovrebbe fare un audiovisivo, soprattutto uno sci-fi: usa un linguaggio non verbale per costruire un’atmosfera che ci traduca dalla nostra quotidianità in un mondo fuori dalla norma. Nella serialità tv non è sempre scontato, soprattutto nel marasma di serie Netflix che escono ogni giorno.
If I Hadn’t Met You — Si no te hubiese conocido, primi 2 episodi. L’ho iniziata attratta dalle premesse intriganti su viaggi nel tempo e/o nel multiverso, legati a un problema col lutto. Le idee base sarebbero nello stesso filone di The Leftovers e The OA, o un po’ Awake (ve la ricordate? Il tizio che vive in due timeline diverse, quando si addormenta passa da una all’altra; in una sua moglie è morta, nell’altra invece ha perso il figlio). Purtroppo, per quel che ho visto, è un’imitazione didascalica di quelle serie più riuscite: atmosfera qualsiasi, dialoghi irritanti, una certa piattezza, una tv standard senza guizzi. Partenza tediosa, scoraggiante anche in virtù di episodi troppo lunghi che sfiorano l’ora. I primi 37 minuti sono già riassunti dalla sinossi, e quanto mostrato fin lì non aggiunge quasi nulla di fondamentale al tono della serie, all’ambientazione o ai personaggi. L’idea in sé mi piace; ma se esce questo nello stesso periodo in cui ritorna The OA con la sua solennità visionaria, il paragone è devastante. Non regge nemmeno messo a confronto con l’estetica curatissima e l’incedere misterioso di Dark, giusto per rimanere nelle produzioni europee del fantastico su Netflix. La CGI a caso e un certo tipo di soluzioni narrative la fanno somigliare più a una brutta versione di Quantum Leap che alla fantascienza drammatica contemporanea (e lo dico con rispetto per una serie che mi faceva impazzire da ragazzina). I vari twist sono belli, per cui se siete delle macchine da guerra che macinano le serie solo per seguire la trama, potete fare un tentativo anche con questa qua.
Ritorni
The Good Fight, stagione 3, prime tre puntate. La scorsa stagione aveva decretato la grandezza dello show, partito in sordina e poi esploso nel 2018 — ne avevo parlato con calma qui. I primi episodi confermano quanto di meraviglioso era uscito dalla scorsa annata: questa è una delle serie migliori che ci sono in giro oggi, anzi, una delle migliori del decennio. Gradita l’introduzione di Michael Sheen nel cast, con una bella sottotrama che finalmente fa qualcosa di interessante col personaggio di Maia Rindell. La dinamica tra i due sembra un’avvocatura del diavolo virata alla Paura e delirio a Las Vegas, Maia diventa sempre più cattiva e incazzata, con un mentore diabolico. Diane rimane uno dei personaggi a cui sono più affezionata dell’intera storia della tv.
This Is Us, stagione 3, fino al 3x16. Non so come ho fatto a dimenticarmela nel recap precedente, visto che la seguo con cadenza settimanale, ma per qualche ragione mi è scivolata via dal cervello. Non è una stagione terribile: la formula è sempre la stessa —può essere un peccato mortale oppure un pregio, dipende da quello che si cerca — eppure mostra la corda, certi meccanismi al terzo anno consecutivo diventano ripetitivi. Dopo aver giocato tutto sulla morte di Jack nella stagione 2, è strano trovarselo davanti in sottotrame inutili che riempiono spazietti qui e là, diventa un anticlimax gestito male. La stagione non ha avuto un vero e proprio centro e tra l’altro sta smontando il personaggio di Randall, facendogli dire e fare cose poco coerenti con la sua stessa psicologia.
RuPaul’s Drag Race, stagione 11, fino a 11x04. Dopo un’ottima stagione di All Stars, questa non è da meno, con un cast forte e carichissimo che alza il livello rispetto alle ultime edizioni più fiacche. RuPaul è presentato come un personaggio più aggressivo del solito, forse un po’ più “cattivo” con le concorrenti (forse troppo?). Sempre grandi risate davanti alla passerella, con una collezione variegata di ospiti.
The OA, stagione 2. Fino a metà. Questo è Il Ritorno per eccellenza, uno show che dimostra come si possa fare prestige drama nel 2019 senza essere bolsi. Sono fan di Brit Marling e Zal Batmanglij da prima del loro arrivo su Netflix, per me hanno rappresentato la corrente sci-fi che più mi è vicina in questo decennio. Questa Part II per ora è incredibile, li trovo persino migliorati nella scrittura, senza aver perso quello di speciale che caratterizzava la loro prima produzione. A breve la mia recensione.
Skam Italia, stagione 3. Volevo provare l’esperienza della visione in diretta delle clip quotidiane, ma quest’anno TimVision non lo permette ai non abbonati. Ho guardato le prime in leggera differita, senza l’effetto “sta accadendo proprio ora”, ma sperimentando la visione frammentata, che non è male. Su Cinema Errante abbiamo scritto riguardo alla prima puntata ed è venuto giù l’internet.
American Gods, stagione 2. Non offendetevi se siete fan, ma ho resistito per 10 minuti e poi ho spento. Sono decisamente più carica per l’arrivo della miniserie Good Omens a maggio (nuovo adattamento da un libro di Neil Gaiman). Un’altra serie abbandonata dal suo creatore Bryan Fuller, oltre a Star Trek Discovery, di cui parlo sotto.
Continuate dal recap precedente
You’re the Worst, stagione 5, fino al 5x11. Un buono svolgimento della conclusione, l’episodio parodia del Racconto dell’ancella mi ha disgustata oltre ogni limite, ma era l’effetto voluto. Direi che a questo punto ci sta che si chiuda, e che lo sta facendo nel modo giusto.
Lorena, miniserie. 4 episodi su Amazon Prime Video, presupposti simili a quelli del documentario su Michael Jackson: raccontare la versione della vittima. Per questo motivo, è un’opera importante ma anche difficile da guardare: i suoi contenuti sono molto pesanti. La narrazione è costruita benissimo, si segue
Black Monday, stagione 1. Fino alla fine è rimasta una delle cose che ho guardato più volentieri in questo inizio di 2019 seriale. Ha conquistato un posto nel mio cuore. Tra i tanti risvolti esilaranti, ho amato molto i commenti caustici sui film dell’epoca, che mettono in risalto quanto fossero razziste e sessiste le care commedie anni ’80. L’unico episodio che mi ha lasciata perplessa è l’1x08, che smorza i toni comedy in favore di non si capisce bene cosa. Rimane comunque una media altissima anche per gli standard odierni.
Star Trek Discovery, stagione 2. Lo dico a malincuore, perché la prima stagione mi era piaciuta e questa aveva anche qualche spunto interessante. Però no, li brucia tutti. Dov’è finita L’Rell?! Perché non ha una sottotrama? Perché Tyler improvvisamente non è più Voq? Mi sarebbe piaciuto vedere uno sviluppo vero del personaggio cyborg Airiam, ma le dedicano un trattamento pessimo. L’episodio che la vede protagonista è uno dei più noiosi e tutto il suo arco è scontato e stravisto. Un po’ meglio con Saru, che per me rimane il vero protagonista della serie, ma il suo arco si chiude subito. In generale, ho trovato una gestione caotica delle sottotrame, dovuta alla poca coesione tra linea orizzontale prevalente e il tentativo di creare una parvenza di autoconclusione agli episodi, per riprendere il format classico. È come se i personaggi si mettessero in fila per usare lo spazio sotto un metaforico riflettore, dire la loro cosa e mettersi in stand by. Molti spunti, poca sostanza, un gran casino. Soprattutto, poco coraggio di osare, mentre nella prima stagione non era mancato. Mi ha lasciata perplessa anche la rassicurante svolta del capitano Pike tirato fuori dal cilindro del pilot originale: gli showrunner della stagione 2 ne fanno un personaggio piattissimo, senza personalità. Era ben altra cosa il travagliato rapporto tra Michael e i suoi mentori nella prima stagione, completamente perso in questo secondo giro. Carina la svolta del 2x11 sul Red Angel, ma non ha la forza necessaria per sostenere l’intera stagione. Mi è piaciuto come sono stati collegati tra loro i personaggi di Philippa e Tyler, ma il loro sviluppo è stato abbandonato — per esempio, non si capisce come mai Philippa adesso sia diventata improvvisamente buona. Va bè, è un pasticcio.
Recuperi
American Horror Story — Roanoke, stagione 6. Piena di belle idee dall’inizio alla fine, la prima metà stagione ha un livello altissimo. Ho apprezzato come giochi col found footage (pur facendo qualcuno degli errori classici del genere) collegandolo non solo al falso documentario, ma anche al reality show. Bella la svolta del 6° episodio, che ci butta nel sequel a metà stagione. Purtroppo la narrazione dal 7° al finale si sfilaccia, incede in un torture porn che fa girare su se stessi i personaggi senza una direzione, e anche l’epilogo è un po’ troppo randomico. Pur avendo questi cali, nel complesso rimane una stagione interessante, sia per le variazioni di tono dentro ai vari sottogeneri horror che rivisita, sia per l’originalità di alcuni spunti. Altri invece risultano già visti: la casa stregata in questione ha qualcosa di troppo simile alla Murder House della prima stagione; proprio per non farne una copia identica, vengono stravolte alcune delle sue regole, ma la logica interna alla storia risulta danneggiata. Comunque penso che se avesse mantenuto la compattezza dei primi 5 episodi fino alla fine, sarebbe stata una delle stagioni migliori dello show.