SERIE TV — Luglio-Agosto 2019

Stranger Things, Euphoria, GLOW e così via

Sara Mazzoni
11 min readSep 11, 2019

Non sarà l’idea più brillante dal punto di vista del social media management, quella di uscire con un post su luglio e agosto a metà settembre. Però chi se ne frega, per fortuna non devo vendervi niente: questi elenchi mi servono soprattutto a fissare quello che ho guardato durante l’anno. Quindi, per le poche persone che avranno cliccato, ecco qua la mia panoramica seriale estiva.

Novità

Euphoria, stagione 1. Per me, entra nella top 10 dell’anno. Teen drama a tinte sperimentali, fosche e glitterate allo stesso tempo. Giovani attrici iconiche tra cui spicca Zendaya; sensibilità nella costruzione dei personaggi e dei loro archi; impianto visuale perfetto; bei dialoghi e soprattutto bei monologhi di Ru, una protagonista adorabile. Per me ha contenuto anche una delle migliori rappresentazioni fiction di una ragazza grassa, fuori da quei cliché che purtroppo saltano fuori anche nelle serie che partono con le migliori intenzioni. A distanza di un paio di mesi, mi sembra ancora una figata e si è sedimentata nel mio immaginario seriale.

The Boys, stagione 1. Divertente. Pro: umorismo macabro, alcune puntate ben ritmate, un concept meraviglioso e un cattivo convincente (Homelander, interpretato da Antony Starr). L’idea è che il mondo dei supereroi sia un universo hard-boiled hollywoodiano, nel senso che ti aspetteresti di trovarci Philip Marlowe o Ray Donovan. I potenti corrotti sono proprio gli eroi dai superpoteri, che sono quasi sempre cattivi. Contro: una rappresentazione dei personaggi femminili triste. Di base sono poco sviluppati, sono secondari e per lo più isolati tra loro. La cosa peggiore è che esistono quasi esclusivamente in funzione dei trope che ne vogliono la morte/stupro/ferimento per motivare gli eroi maschili. Il ritmo generale della stagione purtroppo non è sempre all’altezza di quello vertiginoso dei primi episodi, e il finale di stagione è monco, non risolvendo quasi nulla delle varie sottotrame.

Ritorni

GLOW, stagione 3. Una delle visioni migliori di questo periodo estivo. Parte al rallentatore, con delle prime puntate incerte che mi avevano fatto temere il peggio. Poi si riprende come sempre alla grande. Mi è piaciuto che Debbie abbia assunto un ruolo più da protagonista, il suo è un personaggio che nel corso del tempo si è dimostrato più interessante rispetto a Ruth, a lungo andare troppo leziosa. Ho trovato interessante il viaggio da incubo sul personaggio di Bash e sulla sua omosessualità nascosta. Mi ha colta di sorpresa come poi alla fine confluisca tutto nel dare un’accezione negativa al successo di Debbie. Ovvero: Debbie, come suggerito dallo scambio di ruoli sul ring in cui interpreta Zoya (puntata eccellente), fa un percorso di empowerment personale che la trasforma però sempre di più in potenziale villain. Alla fine della stagione, viene mostrato chiaramente come il suo successo sia ottenuto a fatica — perché è svantaggiata, essendo una donna — ma sempre sulla pelle di altre persone: le ballerine di Las Vegas; Geena Davis, che invece voleva essere sua amica; e il gay nascosto Bash, la cui falsa eterosessualità viene vincolata all’affare che Debbie conclude (rubandolo a qualcun altro). Debbie diventa così la guardiana delle false apparenze eteronormative, unica persona a cui Bash abbia confessato la verità — per ragioni comunque discutibili legate ai difetti dello stesso Bash e ai suoi privilegi e pregiudizi maschili, come la serie non manca di sottolineare.

Narrativamente è scritta e girata straordinariamente bene, l’idea è interessante e sfaccettata proprio per come non fa sconti né a Bash, né a Debbie, che sono personaggi a tratti sgradevoli anche in virtù di omofobia e misoginia internalizzate. Mi chiedo però dove si andrà a parare con la vicenda di una donna di successo che è tale sempre alle spese di altre persone. Comunque sia, ne apprezzo la visione amara, venata di un pessimismo che non è evidente finché non ci si pensa bene, ma che in questa stagione emerge con più chiarezza. Tutto è coerente con l’idea iniziale dello show, che vedeva la protagonista Ruth alle prese con un viaggio dentro se stessa, in cui si trovava costretta a vedersi come una cattiva persona in virtù delle proprie azioni. La sua emancipazione passava attraverso questa presa di coscienza. Ora la protagonista è Debbie, anche lei responsabile di azioni discutibili, per quanto perfettamente motivate. Al contrario di Ruth, Debbie si è emancipata proprio così. Le prossime stagioni dovrebbero a rigor di logica mostrare una specie di resa dei conti tra queste due frenemies, che hanno spesso ruoli antagonistici sempre in relazione l’una con l’altra, sia all’interno del racconto vero e proprio, sia nelle loro funzioni narrative.

È stata una gran bella stagione, con momenti alti, come l’episodio nel deserto, e una sconfessione di tanti luoghi comuni (le donne che vomitano in tv non sono sempre incinte; quello che sembra un infarto potrebbe essere un attacco di panico, ma invece no: è proprio un vero infarto). Bello l’emergere del personaggio di Sheila. Buono anche che lo show si sia occupato in modo diretto della drammaticità legata agli stereotipi razzisti che le wrestler devono interpretare. Non è sempre in punta di penna, soprattutto nello sviluppo di questi temi coi personaggi secondari come Arthie e Yolanda. Ma la scrittura nel complesso è felice e spiritosa, le attrici sono uno spettacolo, la messa in scena semplice ma caratteristica e la rievocazione anni ’80 mai stucchevole.

Stranger Things, stagione 3. Non mi è piaciuta. Qualche buon momento qui e là, ma mi ha lasciata sommamente indifferente. Soprattutto, è stata un promemoria efficacissimo del fatto che a me poi un certo tipo di cinema degli anni ’80 non è che piaccia così tanto. La sottotrama che ha funzionato meglio ai miei occhi è stata quella con Steve, Robin, Erica e Dustin: sia perché gli attori sono migliori, sia perché i dialoghi erano più brillanti e l’alchimia tra i personaggi funzionava. Ho trovato invece posticce le parti con gli altri ragazzini e i loro dilemmi amorosi e amicali, che sono abbozzati in modo ingenuo, banale e stereotipato. Mi è risultata rivoltante la parte tra Joyce e Hopper, in cui lui si comporta in modo sempre molto aggressivo e lei alla fine lo ama lo stesso invece di mandarlo a fanculo. Quando Hopper “muore” e Joyce si dispera, ho detto alla tv: “Non piangere, cara, è stato meglio così”. Ho letto in giro commenti che dicono che la violenza di Hopper è giusta perché è un personaggio “degli anni ’80”. Il mio consiglio è: mettete questa robaccia a confronto con GLOW e il suo sguardo critico sull’epoca, così forse riuscirete a capire la differenza.

Legion, stagione 3, conclusiva. L’ho guardata molto volentieri, come anche la stagione precedente, nonostante abbia i suoi punti dolenti. Visualmente anche questa volta tira fuori alcune idee che mi hanno impressionata, come quella dei mostri del tempo (ispirati ai Weeping Angels del Doctor Who, ma disegnati e animati in un modo originale). Nel complesso, continuo ad apprezzare il fatto che sia una serie quasi priva di trama, dall’incedere psichedelico, a culo con tutto. Uno dei suoi elementi meno piacevoli purtroppo si trascina anche in questa stagione conclusiva: il fatto che tutto ruoti attorno allo smisurato ego maschile di David . Lo scioglimento esemplifica il concetto alla base di tutta la serie: perché l’avventura del protagonista abbia fine, deve essere cancellato un intero mondo. M’è sembrato che ci fosse uno sforzo genuino nell’affrontare questo elemento con una visione critica, ma che il risultato sia stato sbilenco, come se chi ha scritto la serie non avesse compreso del tutto quale fosse il problema che cercava di trattare. L’esempio lampante è l’introduzione del personaggio di Switch, le cui motivazioni non sono mai pervenute: è l’incarnazione di una fantasia anime banalotta (che immagino faccia storcere il naso a chi gli anime effettivamente li guarda), che per ragioni imperscrutabili vota la sua esistenza ad aiutare David a qualsiasi costo.

Divorce, stagione 3, conclusiva. Dramedy HBO che ha vissuto ben 3 stagioni sull’onda di un grande MEH, allo stesso modo conclude, con la sua passione per gli anticlimax. Non so perché, ma l’ho seguito con affetto nonostante tutto.

Mindhunter, stagione 2. Un’altra originale Netflix in cui c’è un cambiamento di protagonista: nel caso di Mindhunter, il personaggio principale della stagione non è più Holden, ma il poliziotto più convenzionale Bill. È un passaggio interessante, che può essere letto in vari modi, con accezioni positive e negative al tempo stesso. Holden era un protagonista maschio che seguiva un paradigma genio-e-sregolatezza antieroico, tipico della tv dalla fine degli anni 2000 fino a poco tempo fa. Quelle caratteristiche ora vengono osservate con freddezza dal racconto e dagli altri personaggi — elemento che ritengo quasi dovuto, trattandosi di una serie contemporanea che suppongo abbia qualche ambizione di innovazione rispetto a modelli inflazionatissimi.

Il problema che riscontro però è che, nel caso di Holden, nella prima stagione c’era stato il tentativo di creare un protagonista maschile non completamente allineato con altri analoghi, perché Holden veniva caratterizzato con tratti che convenzionalmente vengono attribuiti alle donne. La sua sregolatezza stava proprio in questo: Holden era empatico, sapeva ascoltare, aveva lineamenti e voce delicati (e leccava la passera nonostante all’epoca fosse considerata una devianza sessuale). In questa stagione, quell’Holden si è perso, anzi, quell’Holden è stato condannato alla nevrosi, altro tratto convenzionalmente attribuito alle femmine, ma quella nevrosi poi non viene mai davvero esplorata. Bill assume il ruolo principale, con una rassicurante mascolinità tutta d’un pezzo, in cui non si annidano dubbi o vulnerabilità vere e proprie: il suo tallone d’achille è la famiglia, qualcosa di esterno alla sua personalità. Si potrebbe esplorare il tema del suo ruolo familiare, della sua presenza-assenza, della sua incapacità di legare col figlio, ma rimangono sempre temi marginali, trattati solo in superficie. In questo senso, ho trovato la scelta un po’ reazionaria, anche se da un altro verso mi sono goduta il ridimensionamento della figura di Holden in quanto genietto arrogante.

Per il resto: ho trovato interessante che la violenza degli omicidi non sia mai mostrata, nemmeno in foto, ma sempre raccontata dalle parole dei protagonisti (i due poliziotti nella casa ormai vuota; il sopravvissuto senza volto), scelta tutto sommato rispettosa. La pornografia dell’efferatezza c’è (i racconti sono minuziosi, drammatici, raccapriccianti, ed è inutile fare finta di non essere qui anche per quello), ma mettere il focus sulla parola invece che sull’immagine incrementa la drammaticità senza ostentare un effetto wow (la serie è diversissima in questo rispetto a Zodiac). Interessante l’uso delle musiche in questa economia (scena del racconto del superstite).

Ho preferito i primi episodi. È una serie che mi sembra avere un punto, ma poi quel punto mi pare sia sempre sfuggente. La trama di Atlanta non l’ho trovata gestita al meglio, m’è sembrato che le parti davvero interessanti fossero sempre tutte quelle non ambientate là. Forse c’entra con il ridimensionamento di Holden; fatto sta che quella sottotrama mi è risultata noiosa. Rimane comunque una seriedi cui apprezzo lo stile.

Continuate dal recap precedente

Big Little Lies, fino alla fine della stagione 2. Lasciamo perdere tutta la questione sul controllo creativo di Andrea Arnold. Nonostante fosse partita bene, nel complesso la stagione non mi è piaciuta molto. Interessante l’introduzione di Meryl Streep, bello il suo personaggio perché deve incarnare i demoni che perseguitano anche interiormente le persone vittime di abuso come Celeste (nella mia visione, la suocera è la manifestazione delle voci nella sua testa che le dicono che è lei a essere sbagliata). La conclusione in tribunale l’ho trovata patetica, un disastro. L’altra cosa che non ha funzionato è l’uso dei personaggi di Bonnie e della madre, sia per cliché razzisti di vario tipo, sia per la confusione narrativa fatta su quelle parti del racconto. L’unica cosa veramente riuscita della stagione è stato l’equilibrio tra Reese Witherspoon e Adam Scott, bellissimi.

Big Little Lies ai miei occhi è una serie che vorrebbe essere una versione drammatica, profonda e tutto sommato di sinistra di Desperate Housewives (di cui riprende vari tropi). Non sempre riesce a portare a casa l’operazione, forse perché Desperate Housewives funzionava bene così com’era: episodica, sempre a metà tra la commedia degli equivoci e il drammone da soap, e poi anche: reazionaria, fondamentalmente di destra.

Recuperi

Riverdale, stagione 2. Portata a termine faticosamente dopo averla interrotta mesi prima. Ho resistito solo per arrivare alla terza stagione, di cui ho letto meraviglie (la sto vedendo ora e mi sta piacendo molto). Nelle sue prime 2 stagioni, Riverdale è un’opera bellissima, complessa, elegante, piena di idee e splendidamente realizzata, che però spesso non riesce a raggiungermi e finisce per annoiarmi. Capisco la sua importanza nel panorama contemporaneo, anzi, quasi mi stupisce il suo successo considerando quanto è stratificato il suo approccio al pop. Non so se dipenda anche dall’aver comunque seguito la serie per un paio d’anni, ma la terza stagione mi sembra diversa, meno dispersiva.

Younger, fino alla stagione 6 (devo ancora finirla). Sempre divertente, anche se è uno di quei casi in cui la brevità rende il tutto un po’ troppo superficiale: ci sono sottotrame talmente minimali da risultare piatte e insensate. Su un formato da 30 minuti, ho idea che le vicende delle altre due quarantenni sarebbero state sviluppate in modo più efficace, fatto che avrebbe giovato a uno show che comunque è simpatico, ma non irrinunciabile.

Rewatch

Desperate Housewives, stagioni 1–3. Oh boy, qui ci sarebbero da fare tanti di quei discorsi… Cerco di farla breve. È una serie di destra quasi quanto lo è il personaggio di Bree Van De Kamp, che però è anche una sorta di parodia che porta all’estremo le proprie caratteristiche — e per questo il personaggio è così divertente: lo sappiamo già dal casting trovandoci di fronte a Marcia Cross, nota per aver interpretato la psicopatica Kimberly Shaw in Melrose Place, che questa Stepford Wife sarà un personaggio memorabile. La vera anima fascista della serie per me è rappresentata da Lynette Scavo, personaggio odioso che dovrebbe incarnare invece una sorta di ragionevolezza e moderazione, quelle che mancano a Bree per ragioni drammatiche. Insomma, la chiudo qua: Desperate Housewives è il male, propone valori atroci, sessisti, razzisti e reazionari. È anche una serie molto divertente, ottimamente costruita, capace di sfruttare la sua vena trash rimanendo sempre appassionante. È un cimelio del passato, per fortuna, ma è ancora una bella visione, a patto di filtrare mentalmente tutto lo schifo concettuale che si porta dietro.

30 Rock. Ho riguardato metà della prima stagione su Prime Video, e porca madonna, quanto è invecchiata male questa commedia. Mi ricordo che le parti migliori venivano dopo, ma non penso che riuscirò mai più a riprenderla.

In conclusione

Se mi sono scordata qualcosa, lo annetto nel prossimo recap. Perdonatemi se non ho argomentato tutto puntigliosamente, ma già così questo post è un papiro infinito e se continuo ad approfondirlo non lo pubblicherò mai più.

--

--

Sara Mazzoni
Sara Mazzoni

Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

No responses yet