SERIE TV — Giugno 2019

Tales of the City - Dark - Big Little Lies e mille altre serie tv

Sara Mazzoni
10 min readJul 3, 2019

Le mie visioni seriali durante il mese di giugno. Recensioni brevissime di tutto, abbiate pietà di me se sono troppo informali. Per la mia scrittura al massimo della sobrietà, vi rimando a ciò che pubblico su Cinema Errante e Point Blank.

Tales of the City 2019

Novità

Tales of the City, stagione 1. Mi riferisco a quella del 2019. L’ho guardata senza conoscere il materiale di provenienza; una volta scoperto che c’era una saga letteraria e televisiva dietro, l’ho trovata più appassionante. Questa stagione direi che è allo stesso tempo sequel e reboot. Si colloca nella fascia alta e dignitosa della medietà Netflix, la accosterei a The Umbrella Academy: non è da strapparsi i capelli, ma si guarda volentieri e c’è Ellen Page (qui intenta a farsi passare da supergiovane, con effetto straniante per chi la segue dagli inizi). Ci sono alcune maccosate senza senso, ma si perdonano. Una via di mezzo tra la telenovela e il dramma familiare queer.

NOS4A2, fino 1x02. Si legge “Nosferatu”. Fantasy contemporaneo rurale e non urbano, tratto da un romanzo del figlio di Stephen King. Non mi sta appassionando per nulla. Pare l’ennesima serie senza infamia e senza lode delle piattaforme di streaming.

Ritorni

Vida, stagione 2. All’altezza della prima, mi è piaciuto come descrive i suoi personaggi, che non sono mai semplicemente buoni o cattivi. È una stagione concentrata sulle relazioni tra loro, su come si confrontano e collaborano. Il tema della gentrificazione resta presente, anche se la fiction diventa realtà visto che la serie stessa è stata accusata di gentrificare. Dal canto suo, la creatrice Tanya Saracho dipinge nel suo show gli attivisti come personaggi tutto sommato spregevoli, pur raccontando i cambiamenti in corso nel quartiere di Boyle Heights come un fenomeno drammatico. È una questione spinosa e interessantissima, difficile da dipanare. La serie è un bel dramedy stiloso che vale la pena seguire.

Black Mirror, stagione 5. A me non è dispiaciuta, anche se non mi ha fatta impazzire. Ne ho parlato qua.

Big Little Lies

Big Little Lies, fino a 2x04. Bella regia di Andrea Arnold in questa seconda stagione, fin qui ben scritta da David E. Kelley in collaborazione con Liane Moriarty, l’autrice del romanzo da cui era tratta la stagione iniziale. È un fatto positivo che la storia sia andata avanti, perché c’era ancora tanto da esplorare riguardo a personaggi e temi. Il lato più interessante è quello rappresentato dalla storyline di Nicole Kidman e Meryl Streep (quest’ultima fantastica, stronzissima, odiosa e simpatica al tempo stesso come tipicamente sono i personaggi di questa serie). Nel confronto tra le due, c’è modo di raccontare le conseguenze dell’abuso, la difficoltà di comunicarlo, la violenza con cui il mondo esterno rifiuta di credere e di condividere, e poi la ripetizione del ciclo da parte del soggetto stesso. Meryl Streep è fragile e snervante, vorresti colpirla con una mazza ma anche abbracciarla. Ottimo anche il resto del cast che già conoscevamo, con una chimica straordinaria tra Reese Witherspoon e Adam Scott. Laura Dern raggiunge vette indicibili con un personaggio che la serie stessa definisce sardonicamente “shakespeariano”.

Dark, stagione 2. Della prima stagione ho parlato diffusamente nel saggio che trovate online su Osservatorio TV a pagina 44. Questo seguito è meno intenso, ma per me rimane una gran esperienza di visione ludica. La sua struttura a rompicapo la rende simile a un gioco in cui è continuamente richiesta la nostra partecipazione mentale per poter andare avanti. Da appassionata di viaggio nel tempo, intravedo tanti tropi tipici anche in questa stagione. Ho trovato purtroppo fuori fuoco lo sviluppo della trama rispetto ai temi che questi tropi implicano, che sono per altro diventati un po’ ripetitivi: il viaggio orfico fallimentare in Dark ormai lo abbiamo visto 30 volte (anche se la svolta di Hannah è stata bellissima). Mi piace però come si stia buttando sempre di più sul versante Primer della faccenda (fredda elucubrazione, complicato intrico di timeline e versioni multiple dei personaggi), ma anche come si stia avvicinando ai temi di roba come Predestination/All You Zombies e The Man Who Folded Himself, cioè a come esplori le implicazioni dell’esistenza di versioni multiple contemporanee dei singoli individui. Dal cliffhanger finale, ho il sentore che la terza stagione sarà migliore rispetto a questa, che era connotata dalla necessità di arrotolare e srotolare il gomitolo per avere qualcosa di sostanzioso con cui giocare.

Years and Years

Continuate dai recap precedenti

Years and Years, stagione 1. Semplicemente la miglior novità del 2019, tra quelle che ho visto. Ne ho scritto una recensione dettagliata che potete leggere qui.

When They See Us, miniserie. L’episodio 3 non si concentra sulla prigionia, implicitamente affermando che nel riformatorio le cose non possono mai essere brutte come altrove — dove, lo vedremo dopo. La scelta è di saltare la cronaca della detenzione per mostrare come la libertà degli ex carcerati non sia mai realmente reintegrata (e questo va oltre alla vicenda dei nostri protagonisti, riguardando tutte le persone detenute). Il dramma carcerario però non è eliminato dallo show, viene semplicemente rimandato al finale. L’episodio conclusivo si concentra sulla storia più disgraziata, quella del ragazzo che avendo già compiuto 16 anni viene condannato come un adulto. Un’ora e mezzo ancora più strazianti di tutto quello che abbiamo visto fino a quel punto (e non è poco), per me personalmente un pianto ininterrotto. When They See Us è indiscutibilmente un’opera importante. Pur usando il linguaggio della fiction, la accosterei a due documentari usciti quest’anno: Lorena e Leaving Neverland. In tutti e tre i casi, l’obiettivo è raccontare la storia delle vittime di un sistema oppressivo (patriarcato, stardom e razzismo), dare voce alla loro versione dei fatti. Perché se una persona è oppressa, non c’è equilibrio, e chi ne ha i mezzi ha il dovere di dare tutto lo spazio e il peso possibile alle storie meno udibili.

Good Omens

Good Omens, miniserie. Alla fine non mi è piaciuta. Ho gradito come viene caricato di tensione amorosa il rapporto tra angelo e diavolo — anche se a quel punto si poteva esplicitare in concetto con una battuta chiara, visto che ci si gira intorno per 6 episodi con continue allusioni. Mi sa di una decisione democristiana presa per non scontentare lo zoccolo duro dei fan puristi che avrebbero senza dubbio menzionato la violazione delle loro infanzie. Il sottotesto è per altro confermato sia da Michael Sheen, sia da Neil Gaiman. Chiarito questo punto, sulla serie in sé ho da fare una critica soprattutto al buon Gaiman: la scrittura per la tv non sembra la sua cosa, nonostante i vari tentativi che ha già fatto. Good Omens è noiosa, verbosa, non necessaria. I suoi momenti buoni sono legati alla romance di cui sopra, mentre a tutto il resto, ovvero la trama principale, non ci si può appassionare. Avevo già detestato il libro, ma pensavo che con un buon adattamento seriale si potesse recuperare una serie brillante. Non è andata così, e l’ho finita faticosissimamente nonostante la brevità del formato e gli attori fighi.

Chambers

Chambers, stagione 1. La serie ha pregi e difetti, rimane però una roba minore come il 90% delle produzioni Netflix. Gli elementi horror non sono male, ma si disperdono in una trama annacquata in un format inadatto all’intreccio. È una storia che poteva funzionare bene come film da 90–100 minuti, ma non è stata strutturata in modo da reggere i suoi 10 episodi (minutaggio sopportabile sui 40 minuti, vera ragione che mi ha traghettata fino in fondo). Esteticamente invece è molto piacevole, soprattutto per la fotografia da film indie art house. Il vero problema è la scrittura: i dialoghi sono terribili, l’intreccio singhiozzante e verso la fine esplode il maccosa. Mi è però piaciuto il cliffhanger finale, che getta le basi per una seconda stagione potenzialmente più interessante della prima. C’è pure un episodio diretto da Ti West, ma anche quello è confuso e grezzo. Sembra di guardare un lavoro realizzato da una prima bozza invece che da un copione veramente finito. C’è comunque qualche spunto per una visione oziosa.

What/If, stagione 1. Faticosamente finita, mi è scoppiato il maccosometro. L’aspetto più trash nella scrittura non è la vena da soap opera (per me benvenuta), ma il modo in cui la sottotrama dell’amica fedifraga non si collega mai, nemmeno di striscio, con la vicenda principale o con qualsiasi altra. Impennata raggiunta nel finale nei boschi. Sarebbe davvero divertente, se gli episodi non durassero un’ora.

Shrill

Quasi nuove — Uscite prima di giugno

Shrill, stagione 1. Solo 6 episodi per una novità che riprende i toni della commedia contemporanea tipo Girls, pur senza essere altrettanto brillante. Compensa però con i contenuti: la protagonista è interpretata da Aidy Bryant, nei panni di una giovane donna grassa che per una volta tanto non è né la macchietta o la linea comica (pronto Skam?), né la migliore amica sfigata di una ragazza magra. Non sono una fan del caratterizzare i personaggi in quanto “grassi”, perché questo è il modo in cui la gente mi guarda, un pregiudizio con cui mi devo scontrare ogni giorno. Se devo descrivere me stessa, mi vengono in mente almeno 20 aggettivi diversi prima di “grassa”, che forse nemmeno penserei. Invece, le persone attorno a me mi danno continuamente prova di vedere questo elemento prima di ogni altro e di identificarmi con quella caratteristica. Da qui, il mio rigetto per le narrazioni che caratterizzano i personaggi in quanto tali. Ciò detto, non ho trovato Shrill particolarmente problematico, si vede che è stato scritto da persone che sapevano quello di cui parlavano. In qualche occasione ho trovato comunque esagerata l’enfasi su certi luoghi comuni, ma sicuramente meno di altre opere analoghe. Mi ha un po’ delusa invece per il lato comedy, che avrei voluto più forte. Rimane però consigliatissima per chi ama il dramedy indie, in particolare quello con la mano delicata.

What We Do in the Shadows, pilot. Simpatica, anche se fin qui non mi sembra divertente quanto il meraviglioso film omonimo da cui è tratta. Lo spirito però è quello giusto.

Gentleman Jack

Gentleman Jack, pilot. Sembra proprio bella. Di Sally Wainwright ho amato molto Happy Valley, che vi consiglio. Questa è completamente diversa ma molto affascinante. Da quel che si evince in questa prima puntata, è ispirata alla vera storia di una donna inglese che nel 1832 è a culo col mondo perché vuole vivere pubblicamente come un uomo, amare le donne e sposarne una. Wow. Protagonista la fighissima Suranne Jones, che mi era piaciuta in Doctor Foster (altra serie british che vi consiglio). Quanto spacca BBC One, che ha fatto tutte e tre queste serie e anche Years and Years. La superiorità televisiva inglese.

The Last Kingdom

Recuperi

The Last Kingdom, stagione 1. Una stranezza che ho trovato nascosta su Netflix (che dal 2018 la produce), è una storia medievale stile Vikings, ambientata durante le guerre tra i Danesi e i Sassoni. Il protagonista è necessariamente gnocco e la serie è divertente. La stagione intera sembra girata col budget di mezzo episodio di Game of Thrones, ma si fa comunque apprezzare per la ricostruzione dei villaggi melmosi e dell’ambientazione storica. I re vivono in capanne, ci si ammazza ad accettate e scudate, eccetera. Il difetto principale del protagonista è di essere stupido, è un elemento che fa proprio parte della storia (“Cosa fa quell’idiota?!” qui lo dicono gli altri personaggi, non solo il pubblico). Viene data grande importanza alla superstizione sia dei “pagani”, sia dei cristiani, mostrate come identiche — anche se l’antipatia vera sembra essere diretta proprio a questi ultimi, col mio plauso. L’intreccio non rispetta granché le “buone regole” della narrazione seriale; da un verso sarà anche frustrante e denota qualche errore, eppure mi ha fatto un effetto positivo: l’ho trovato un racconto originale, con un andamento diverso dal solito, che a modo suo alla fine funziona.

Younger, stagione 1. Serie di Darren Star carina e senza grandi pretese, stilisticamente sembra una comedy anni 2000 e invece è molto più recente. Lo humor è un po’ datato; data la sua premessa (una 40enne si deve fingere 26enne per trovare lavoro), potrebbe essere cento volte più divertente. Le gag sul confronto tra Gen X e Millennial sono scritte senza grande consapevolezza né di una generazione, né dell’altra. In questo modo si rende universalmente appetibile a chiunque anche al di fuori di quelle due generazioni, ma perde in identità. Ho iniziato la seconda stagione, che sembra migliorare sotto questo aspetto. Ha comunque un bel formato agile da sit-com che la fa scorrere via allegramente, un bel tema e soprattutto gli episodi sono veramente corti ❤.

Euphoria

Ancora in attesa, ma tanto a luglio non esce un cazzo*

*A parte Stranger Things e qualche altra cosa di cui parlerò poi.

Euphoria, fino a 1x03. Si annuncia come una figata.

Legion, 3x01. Ho adorato la seconda stagione, sono fiduciosa.

Pose, stagione 2, fino al 2x03. Aspetto un altro po’ e me ne faccio una pera.

Chernobyl, dall’episodio 2. So che è bellissima, il pilot l’ho apprezzato. Attendo il momento propizio per guardarla.

Ramy, SMILF stagione 2, Into the Dark episodio 8, Black Summer, ancora tutte lì in attesa ma le vedrò.

Riverdale, stagione 2. L’avevo interrotta a metà ma visto che esce su Netflix la riprendo.

La serie di Refn invece per ora non intendo guardarla. Non la reputo particolarmente importante. Lui stesso ha implicitamente ammesso di non saper scrivere per la televisione, dicendo che “non è tv, è cinema”. Allora ne faccio a meno: io un film di 13 ore non lo andrei mai a vedere.

--

--

Sara Mazzoni
Sara Mazzoni

Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

No responses yet