SERIE TV e STREAMING — Ottobre 2019
Novità
Ho aggiunto la parola “streaming” nel titolo perché ho sentito dire che è da sfigati non metterla visto che la televisione come concetto si è evoluta, quindi mi è venuta l’ansia. Passando alle serie in questione, questo mese non ho gradito per nulla le novità che ho guardato — tranne Evil che ADORO, e di cui parlerò più sotto. Faccio una panoramica veloce, ma la vera ciccia la trovate nei paragrafi successivi con i ritorni e le serie che ho continuato da settembre.
The Politician, stagione 1 fino a 1x07. Meh. Non è la mia tazza di tè, né tra le cose che ho preferito di Ryan Murphy. Capisco perché possa piacere, a me però non ha detto nulla. Su Netflix.
Creepshow, stagione 1, primi 2 episodi. Non è stata la mia serie di Halloween. Esperimento carino, con un momento strepitoso, quello davvero da non perdere, ma tutti gli altri sottotono. Ogni puntata presenta due episodi, io ne ho visti 4 in totale, 3 così così, uno stupendo: The House of the Head, la seconda parte della 1x01. Correte a vedere quello, intanto. Su Shudder.
Living With Yourself, stagione 1. Svogliatissima comedy fantastica, con uno spunto potenzialmente interessante realizzato al minimo delle energie. Ha le idee estremamente confuse sul concetto di consenso ed è fastidiosamente settato sul punto di vista del protagonista maschio-bianco-occidentale privilegiato e depresso, che si comporta in modo insopportabile con la moglie: la serie finge di problematizzare la sua posizione ma fallisce miseramente, risolvendo tutto in una bolla di sapone. A Paul Rudd darei un sacco di mazzate, il che non ha aiutato. Su Netflix.
On Becoming a God in Central Florida, stagione 1 fino a 1x07. Prime puntate interessanti, tema bellissimo: il marketing multilivello, che è uno schema di Ponzi ma ha anche i meccanismi della setta religiosa. Purtroppo però andando avanti ha mostrato la corda perché è una serie tutta di maniera, che si ispira a Fargo (già per definizione manierista) e non riesce mai a esplorare davvero gli scenari più succosi che tira fuori (e ce ne sono parecchi). Non mi ha fatta impazzire il personaggio della protagonista, che però piace a tutti tranne me, quindi vedetela e fatevi la vostra idea. A un certo punto mi sono stufata e non l’ho finita. Su Showtime.
Modern Love, stagione 1. Pallido tentativo di imitare Easy (meritevolissima originale Netflix), traducendola in una robetta annacquata, superficialissima, senza personalità, che non parla di niente. Si salvano giusto un paio di episodi, ma nel complesso è una perdita di tempo. Odiosa l’ambientazione a Manhattan, classista fin dai primi istanti del primo episodio. Su Prime Video.
Ritorni
BoJack Horseman, stagione 6, prima parte. Allora, per me BoJack ha spaccato fino alla terza stagione compresa, perché aveva un tiro orizzontale sul protagonista che andava in una certa direzione. Poi, evidentemente proprio perché la serie è andata bene, c’è stato bisogno di allungarla. Le due stagioni successive sono state una specie di stand by molto ripetitivo sul piano dell’orizzontalità di questo arco. La vicenda è diventata meno appassionante, al di là delle infinite gag, più o meno riuscite. La morte di Sarah Lynn era stata lo spartiacque, un evento che viene finalmente ripreso in questa stagione conclusiva. Per adesso però mi pare che si continui ad allungare il brodo. Va tutto abbastanza bene coi personaggi secondari, ma nel complesso trovo la stagione poco centrata, senza un vero filo conduttore. È chiaro il tentativo di riprendere dallo snodo di Sarah Lynn, ma fino a qua non mi sembra che abbia funzionato, e a me sinceramente dei traumi infantili di BoJack a questo punto non frega più nulla. Per cui sì, carina, piacevole, si guarda, però meh. Su Netflix.
Big Mouth, stagione 3. Caruccia come sempre. Le parti più riuscite però sono quelle che non cercano di essere educative (a volte facendo confusione), ma quelle con le battute più audaci e fini a loro stesse: lì la serie diventa davvero divertente (mi ha uccisa la scena in cui la parola “incest” suona il banjo e scopa se stessa). Simpatica, ma alcuni contenuti e scelte non mi convincono del tutto. Su Netflix.
Castle Rock, stagione 2, primi 2 episodi. La storia di Annie Wilkes giovane in un mash up con la città dei vampiri (che però non si sono ancora visti). Idea figa, ritmo ancora da slow burn nel senso che a volte si rischia di dormire, si capirà meglio se merita o no solo andando avanti. Per adesso la guardo ancora volentieri. Non è la stessa cosa senza lo Skarsgård, spero che prima o poi risalti fuori — ma mi sa che è diventato un po’ costoso. Comunque la cosa più appassionante di Castle Rock è fare le teorie, e in quello funziona ancora a meraviglia. Su Hulu.
The Good Place, stagione 4, fino a 4x05. Simpatica pure lei, meglio della stagione precedente che per me è stata invece una discreta delusione. Su NBC.
How to Get Away with Murder, stagione 6, fino a 6x05. Mi piace che Annalise sia un’icona imperfetta, ma non per questo la serie la trasformi in una totale sociopatica. Annalise continua a porsi dilemmi etici, nonostante in cinismo che l’ha caratterizzata finisce sempre per cercare un modo per riparare ai danni provocati. Adoro la fotografia e la musica dark, il drama, le battute sagaci, sarà una delle serie che mi mancheranno di più tra quelle che si stanno chiudendo. Su ABC.
This Is Us, stagione 4, fino a 4x03. Non ho molto da dire, è sempre la solita formula riciclata all’infinito ma dopo 3 stagioni l’effetto si è scaricato. Anche questa volta, c’è un’incursione nel futuro che però rimane di nuovo molto timida, mentre esplorare quel versante potrebbe essere un buono spunto per rinnovare una serie ripetitiva. Dovrebbero davvero buttarsi nella fantascienza sociale, senza fare solo finta. Sono stufa di vedere i cazzi del vecchio Jack: ormai è andato, il personaggio è consumato, morto e sepolto, basta; invece no, è sempre lì in ogni episodio, cazzo. Su NBC.
Continuate dal recap precedente
Evil, stagione 1, fino a 1x05. Dall’avvocato del diavolo alla psicologa del demonio, procede benissimo la prima stagione di Evil, serie sovrannaturale creata da Michelle e Robert King, già autori di The Good Wife/Fight. Il tema del Male pervade le opere dei King durante tutta la presidenza Trump. Qui, in questo dramma demoniaco, appaiono i temi della terza stagione di The Good Fight: è giusto usare gli stessi mezzi del Male per batterlo? La dimensione procedurale funziona al meglio quando è legata alla trama orizzontale, come nell’episodio 1x03, mentre i momenti più slegati, come la storia autoconclusiva dell’1x02 risultano inutili — anche se probabilmente svolgono la funzione di semina per combaciare con pezzi della trama orizzontale in futuro. Ma le parti più belle, la vera anima della serie, sono quelle che riguardano Kristen, la protagonista, e la sua famiglia: il terrore notturno George, il videogioco in realtà aumentata, la bambina mascherata. Sono raccontini horror perfetti, che vanno al cuore delle paure della contemporaneità. Sono magnificamente tarate sulla protagonista, madre di 4 bambine e quindi lambita da tutta una serie di angosce legate alla responsabilità verso di loro.
La paura è mostrata anche come strumento di emancipazione, usata dalle bambine in continui riti di iniziazione digitale e reale. Il terrore notturno di Kristen, che sicuramente riapparirà in futuro, coglie bene gli aspetti più universali della paura negli adulti: i riflessi della nostra mente diurna tornano prepotenti nel sonno, scavalcano anche il nostro scetticismo. Perché davanti al mostro non serve a nulla gridargli che stiamo solo sognando, se quello poi non ci lascia in pace. Il mostro è falso, la paura è vera. La serie sorniona ci chiede poi: ma il mostro era veramente falso? Per me si è trasformata da serie gradevole a una delle migliori novità del 2019 in pochissime puntate. Spero che non mi deluda, perché la sto amando tantissimo. Su CBS.
The Affair, stagione 5. La trama di Joanie raggiunge livelli di trash inediti anche per una serie che ha avuto alti e bassi, e con “bassi” intendo gli abissi dell’inferno toccati nella orrenda stagione 3. Dalle ispirazioni cli-fi, a thriller di ultima categoria completamente privo di alcuna logica, peggiorato ulteriormente dalla recitazione atroce di Anna Paquin. Detto questo, la stagione oscilla continuamente da questi picchi demenziali a momenti invece significativi: la puntata sul #MeToo di Noah ha offerto spunti che non mi sarei mai aspettata da The Affair (una serie un po’ conservatrice sul femminismo), riabilitando uno dei personaggi più bistrattati proprio da quella infame terza stagione, Audrey. Davvero un grande episodio, subito seguito da una roba molto più trista con Noah in versione eroe durante gli incendi californiani. Va bè, è The Affair e comunque sia mi mancherà un casino pure lei. Su Showtime.
American Horror Story — 1984, stagione 9 fino a 9x07. Fa quello che una serie o un romanzo horror dovrebbero fare: è piena di momenti, di micro-storie nella storia, sottotrame che sono piccole parabole dell’orrore. Nonostante questo, ho trovato comunque troppo lunga la parte slasher “il racconto di una notte”, cioè ben 5 episodi su 11. Il gruppo di attori aggiornato al 2019 è pregevolissimo, ho stimato particolarmente Angelica Ross (divina) e Billie Lourd: nonostante il personaggio di Montana rappresenti il male, è impossibile non tifare per lei, e quando picchia fortissimo Brooke nella 9x05 è tutto molto gratificante. Bellissime le maschere di Mr Jingles e il personaggio stesso, sovvertimento del killer slasher. La stagione regala qui e là one liner notevoli, soprattutto in bocca a Cody Fern che in questa stagione è esilarante. Tra i lati negativi, dopo 8 anni fa strano continuare a trovare un meccanismo sovrannaturale come quello di Murder House (2011), apparso troppe volte lungo le varie stagioni della serie. Dalla puntata 100 devo dire che mi aspettavo chissà quale colpo di scena, e invece non è successo niente. Nel complesso, una bella stagione ma non tra le mie preferite perché mancano certe follie che ho apprezzato in Apocalypse, o lo spirito caustico di Cult. La trovo però una rilettura competente di un sottogenere che ha fatto la storia dell’horror e che però io non amo particolarmente. Su FX.
Succession, stagione 2, ultime 2 puntate. Lavoro spettacolare sui beat di sceneggiatura: ogni scena è fondamentale, e dentro a ogni scena lo è ogni battuta. Si va sempre in una certa direzione sadica (ma va bene, visto che i protagonisti sono moralmente corrotti: sono i potenti della terra che abusano del popolo credendosi in diritto di farlo). Quando qualsiasi scambio ha inizio, sappiamo che non porterà a nulla di buono; quando un desiderio sembra sulla via della realizzazione, sappiamo che il personaggio si scontrerà con una delusione orrenda, e nonostante Shakespeare sia il punto di riferimento principale, alla fine, a spingere i nostri protagonisti è pur sempre l’hybris della tragedia greca. Qui il dio da non sfidare è l’eterno padre violento Logan, che però non è immune dallo stesso fato che colpisce i suoi orribili figli, e finisce anche lui per mostrare delle vulnerabilità durante questa bellissima seconda stagione. Nonostante la vena satirica sia predominante, Succession è comunque un dramma complicato che tiene il pubblico attaccato allo schermo perché innesca una curiosità morbosa verso la perversione con cui i protagonisti si colpiranno tra di loro. Merita il riscontro positivo che ha ricevuto. Su HBO.
Recuperi
What We Do in the Shadows, stagione 1. L’intramontabile “oscurità carina” da Famiglia Addams, con begli effetti speciali e costumi, con una comicità da commedia dell’arte. Taika Waititi e Jemaine Clement riprendono il loro film omonimo del 2014, inventando personaggi nuovi e ambientando la serie a Staten Island. Per il resto, lo show è aderentissimo al materiale da cui origina.
Lo show, come il film, mescola il realismo finto-documentario — da comedy televisiva diffusasi una decina di anni fa (The Office, Parks and Recreation etc.)— con un’estetica permeata di kitsch gotico ottocentesco, apertamente stridente con lo stile registico. Il concept usa lo stesso meccanismo, raccontando le vicende ordinarie di creature straordinarie poste in un contesto ridicolmente banale.
Anche se la camera a mano e il falso documentario oggi risultano un po’ vecchi, si può ancora trovare spazio per una serie come What We Do in the Shadows, proprio per come rilegge un tipo di commedia di grande successo esasperandone lo stile. Nel complesso è tutto grazioso e simpatico, anche se a volte le risate sono a denti stretti — mentre nel film le gag erano più immediate. È evidente la classicità di tutte le ispirazioni, ma riesce a risultare almeno parzialmente innovativa nella sua parodia di più generi allo stesso tempo (le figure dell’horror più antico, la commedia contemporanea). Su FX, qui da noi esce su Fox dal 31 ottobre.
Rewatch
Desperate Housewives, stagione 4 e inizio della 5. Col suo misto di gotico e satira sociale (di destra), in queste 5 stagione scrive una specie di manifesto di quel domestic thriller che esploderà come genere nel decennio successivo, soprattutto grazie a Gillian Flynn — ma lo spunto di Gone Girl appare almeno due volte nelle prime stagioni di Desperate Housewives. Questo l’aspetto positivissimo dello show, oltre al fatto che amo Bree.
Quello negativo è incarnato da ciò che io chiamo IL FASCISMO DI LYNETTE. C’è un meccanismo che la riguarda e continua a ripetersi lungo tutte le stagioni: spesso Lynette si comporta male, ficca troppo il naso, supera confini, non rispetta la volontà degli altri o i loro spazi. Di solito, è mossa da qualche orrendo pregiudizio reazionario, cose tipo che se vede il marito parlare con una donna in mezzo alla strada pensa subito che lui abbia una relazione e lo pedina. Il fatto è che ogni volta che questo accade, l’episodio finisce per dimostrare che Lynette in realtà aveva sempre avuto ragione: c’era un buon motivo per preoccuparsi, le sue azioni scorrette sono redente dall’esito, che è sempre dalla sua parte. Nella stagione 4, questo meccanismo è portato all’estremo con la parabola di Kayla, bambina figlia di Tom, nata fuori dal matrimonio, che Lynette identifica come il Male finendo per avere ragione. La serie giustifica l’abuso di minore, raccontando il momento in cui Lynette picchia Kayla come una manipolazione della ragazzina diabolica, avvicinandosi molto all’idea che le donne che denunciano una violenza siano in verità bugiarde mosse da bassi istinti. Già è un pensiero orribile, applicarlo poi a una ragazzina delle medie lascia di stucco. Faccio notare anche come Lynette, nell’arco di varie stagioni, si renda responsabile della morte di diverse persone proprio per via di questo atteggiamento che la serie continua invece a proporre come non condannabile(la sorella paralitica del vicino pedofilo; la madre di Kayla; l’anziana vicina Ida).
Bellissime apparizioni di varie attrici iconiche in ruoli marginali (le sorelle di Lynette sono Sarah Paulson e Carrie Preston, quella di Karen McCluskey è Lily Tomlin, la cliente di Carlos è Frances Conroy). Su Prime Video.
YouTube
Ho guardato ore e ore di video ASMR di saponi pitturati e tagliati col cutter, e poi di coltelli in ceramica che affettano la kinetic sand colorata producendo un delizioso rumorino. Mi sono resa conto che questi video non sono mai davvero anti-narrativi: c’è una drammaturgia minimale già solo nell’idea di dipingere un sapone per creare un momento di rivelazione quando il cutter lo squarta. La cosa più bella che ho visto però è un sottogenere chiaramente destinato solo ai bambini piccoli, quello in cui una serie di oggetti colorati vengono disposti su un tavolo e poi metodicamente ficcati dentro lo slime, sul quale vengono versati smalti e altre cose destinate a usi diversi. Randomicità, nonsense, logica incomprensibile per la mente sviluppata, è una roba distruttiva e creativa allo stesso tempo, ed è geniale che stia, lì, sul tubo, con milioni di visualizzazioni. Ogni tanto leggo riflessioni apocalittiche su questo genere di video, ma dopo averli guardati le trovo assurde. Forse sopravvalutiamo un certo tipo di narrazione semplicemente perché è codificata in un altro modo, perché è più cerebrale e quindi più rassicurante per le persone adulte. Questo tipo di video ha una funzione diversa, però, e alla fine non lo guardano soltanto i bambini. Funziona perché è concepito tenendo conto di altre necessità che abbiamo, spesso ignorate nella serialità televisiva o streaming che dir si voglia. Qualcosa che riguarda l’equilibro estetico, la sensorialità, l’uso del suono e del colore, l’ipnosi del movimento, tutta roba che in tv è sempre sovrastata dall’incedere del dialogo e dalla rigidità della trama, o semplicemente da un budget troppo scarso per potersi occupare anche di questo lato.
Mi mancano ancora
Daybreak, War of the Worlds, Catherine the Great e le ottocento cose che mi trascino da tutto l’anno.