SERIE TV e STREAMING- Novembre 2019

Le streaming wars rinfrescano le narrazioni seriali

Sara Mazzoni
14 min readNov 30, 2019
The Morning Show su Apple TV+

Arriva la massa di titoli delle guerre per lo streaming, la situazione si fa sempre più satura. Io nel frattempo ho visto delle cose vecchie che volevo recuperare, ho continuato i miei rewatch e ho preso con una certa calma l’orgia delle nuove uscite — anche perché così quando le guardo me le godo invece di odiarle, dato fondamentale sia per la mia salute mentale, sia per scrivere una buona recensione. La mia impressione, ancora parziale, è che Apple TV+ sia una novità entusiasmante — per varie ragioni come quelle discusse in questo pezzo su Servant — nonostante sia inquietante il modello di business su cui si poggia (ne parlano qua). D’altra parte, la televisione ha costruito una struttura narrativa eccellente ritagliandola attorno agli spazi pubblicitari: possiamo dire che sia nata nel peccato capitalista. Ma proprio dal punto di vista della qualità della scrittura, necessaria a non disperdere l’attenzione degli utenti con opere mediocri, dal minutaggio innaturalmente gonfiato (vero Netflix?), queste streaming wars sembrano una benedizione per il pubblico: hanno innescato una nuova fase in cui l’obiettivo dei network non sarà più cercare di farci stare mille ore in infinite jest davanti a una serie scritta a cazzo, perché ormai cambiamo canale/piattaforma o interrompiamo l’abbonamento. Finalmente.

Novità

The Morning Show, stagione 1 fino a 1x07. Ottimo dramma giornalistico sul #MeToo, in cui c’è satira ma anche uno sguardo più sensibile su quelle dinamiche del potere giustamente attaccate dal movimento. Non manca niente: la rappresentazione di casi diversi tra loro, ma soprattutto un’analisi che non si concentra su di essi quanto piuttosto sulla cultura sociale che li produce, cioè quella che viviamo tutt*. Non è semplice da sbrogliare e infatti non la prende in modo semplicistico. Intanto parla anche del disgustoso fenomeno del rebranding di persone abusanti, che cercano di tornare alle luci della ribalta, come abbiamo tristemente potuto osservare nella realtà. In mezzo ci infila una puntata che ricostruisce gli scenari apocalittici degli incendi californiani, visti anche nel pre-finale di The Affair. Dopo le prime 3 puntate pubblicate tutte insieme, Apple Tv+ ha optato per la cadenza settimanale: la serie ha il tempo di sedimentarsi, di diventare qualcosa che si aspetta volentieri. Ha il tempo di durare, come dice Shyamalan nell’intervista che vi ho linkato nell’introduzione.

Servant, primo episodio. Lo vedo stasera :)

Dickinson, primo episodio. Ho visto il pilot, che comunica molto chiaramente cosa sia lo show. Una serie in costume che racconta la storia di Emily Dickinson (poetessa, XIX secolo, New England), ma lo fa come se si trattasse di una comedy ultra-pop contemporanea (canzoni di Billie Eilish e simili, tematiche intersezionali, enfasi farsesca, effetti digitali surreali). Il risultato, per quel che ho potuto vedere, è una cosa davvero originale. Uscita per intero su Apple TV+.

Watchmen, fino all’episodio 1x04. Questa non è esattamente dalle streaming wars, però è una delle novità di punta del 2019, e non solo sulla carta: la serie è davvero bella. Sto leggendo contemporaneamente anche il fumetto; fin qui devo dire che la serie mi sta impressionando di più e forse senza il suo supporto immaginativo mi sarei goduta di meno la graphic novel. Il pilot non mi era piaciuto particolarmente, ma già dalla 1x02 ho sentito alzarsi il tiro. Mi ricorda molto Legion, però con uno sguardo rinnovato, meno egocentrico e narcisista. La decostruzione dei supereroi giustizieri pure mi sembra più complessa rispetto a quella che si trova in una serie graziosa ma minore come The Boys. Molto d’impatto la descrizione del massacro di Tulsa (reale fatto storico) con cui si apre programmaticamente la serie: sembra fantascienza e invece è la storia americana (purtroppo). In certe inquadrature Sister Night è un concentrato di coolness allo stato puro, ma il sottotesto che l’accompagna è chiaro: non è tanto una bella cosa che la polizia abbia i costumi e le maschere. Su HBO.

The Mandalorian, primo episodio. Carino fare il western in Star Wars; era già un po’ così nella saga stessa, ma qui si porta il discorso all’estremo e il Mandalorian sembra Clint Eastwood nello spazio. Figa la comparsata di Werner Herzog ma il senso di tutto il pilot sta in quello che vediamo nella sua scena finale. Dal punto di vista del ritmo, l’ho trovato svogliato e mi sono annoiata. Impeccabile invece l’apparato visuale, davvero meraviglioso. Probabilmente il tutto è più godibile se si è bambini. Questa è la serie di lancio di un altro pericoloso personaggio delle streaming wars, ovvero Disney+, e anch’essa esce a cadenza settimanale.

Dublin Murders, primo episodio. L’anno scorso ho letto i primi due romanzi di questa serie giallo/thriller. I libri non sono scritti particolarmente bene, quello che conta è la trama. Qui nello show invece c’è un’estetica curata ma il ritmo è soporifero. Il fatto di conoscere già la storia, unito alla piattezza della trasposizione, mi ha tolto la curiosità di andare avanti. Trovo ben riuscito l’aspetto da “Stranger Things dark”, ripreso fedelmente dal libro (bambini, biciclettine, bosco) che precedeva di parecchi anni Stranger Things; ma non sono stupita che l’adattamento arrivi proprio adesso. Se non ne sapete nulla e vi interessa un giallo europeo, può valerne la pena. La trasposizione è di Sarah Phelps, che ha fatto tutte le miniserie della BBC tratte da Agatha Christie di questi ultimi anni. Su BBC One e Starz.

His Dark Materials, primo episodio. Ho letto il libro molti anni fa e mi era piaciuto. Ho visto il film, che non era un granché. Ho guardato la prima puntata dello show e per ora non mi ha suscitato grande entusiasmo. Vedremo, ma per ora ho dato la precedenza ad altro. Su HBO.

Castle Rock 2x07

Ritorni

Castle Rock, stagione 2 fino a 2x08. Ha un tono minore che mi piace ed è riuscita anche quest’anno a tirarmi dentro. C’è l’universo kinghiano, ma soprattutto le speculazioni fanfiction su possibili diramazioni delle storie dei personaggi. In questo caso, si tratta di Annie Wilkes, l’infermiera di Misery, qui interpretata da Lizzie Caplan (la quale non mi sta convincendo del tutto). L’elemento più forte di Castle Rock però è la sua dimensione dark fantasy, prima che horror, con gli universi paralleli che confluiscono tra loro nei luoghi descritti. Una scelta kinghiana, sì, ma anche paracula perché fornisce una macro-giustificazione per far succedere quello che si vuole. Eppure lo show ha saputo costruire una mitologia interna che fin qui ha avuto coerenza, al contrario di altri franchise di J.J. Abrams come Cloverfield. E sì, Castle Rock è sorniona ed è probabile che anche quest’anno non ci spiegherà niente. Ma ho amato il colpo di scena della 2x07, perché senza quel plot twist mi sarei sentita presa in giro da stagioni troppo scollegate tra loro; e invece la direzione è opposta. Su Hulu, una puntata alla settimana.

Silicon Valley, stagione 6 fino a 6x05. Umorismo un po’ datato. Col passare del tempo noto sempre meno capacità di vera satira sui punti deboli dell’ambiente descritto, nonostante in questa stagione ci siano tanti spunti proprio di questo tipo. Il problema è che si va sempre tutto a stemperare nel nulla, diventando la saga di qualche nerd maschio-bianco-sfigato, ormai priva di elementi comedy esilaranti (tranne quando si tratta di Russ). La cosa carina che invece funziona ancora è la concatenazione di patti col diavolo a cui Richard deve per forza prestarsi per restare nella Silicon Valley; quella alla fine è la vera anima dello show, rimasta invariata. Su HBO.

The Crown, stagione 3. Sempre accogliente, sempre una grande serie, una delle migliori di Netflix. Ottimo racconto della storia politica e sociale inglese attraverso la sua istituzione simbolo. Per me è una bella visione, con un cast rinnovato ottimamente e coi suoi episodi autoconclusivi che però lasciano una gran voglia di vedere il successivo. Ma se devo dirla tutta, non è stata la mia stagione preferita. Questa volta ho notato uno sforzo eccessivo per far risultare universali le storie degli aristocratici, meccanismo che funziona solo quando non è troppo evidente. Ogni tanto mi sono parse forzate le analogie tra situazioni politiche e storie individuali. Non mi è piaciuto il finale dell’episodio sul disastro di Aberfan, con l’ostentazione delle lacrime della regina (avrei lasciato il mistero inquadrandola di spalle: alla fine piange o no? Impossibile saperlo). Inutile l’episodio sulla crisi di mezz’età di Philip, però stupendo il cringe del dialogo tra lui e gli astronauti. Bella invece la vicenda di Margaret, con in evidenza il doppio standard usato verso la sua relazione extraconiugale, considerata imperdonabile. La formula è sempre quella di “gente ordinaria con problemi straordinari”, funziona e funzionerà fino alla fine, ma ho trovato la stagione meno dirompente rispetto alle altre e forse troppo esplicitamente monarchica. Mi duole dirlo, ma ho amato Claire Foy più di Olivia Colman. Ciò detto, ribadisco che rimane uno dei migliori originali Netflix di sempre.

The Kominsky Method, stagione 2. Non amo Chuck Lorre (nonostante Dharma & Greg), però la serie è piacevole. Questa seconda stagione è anche migliore della prima: sottolinea l’ipocrisia del protagonista (Michael Douglas) in ambito sentimentale (la vicenda della figlia fidanzata a un coetaneo del padre) e tira dentro per un istante la divina Kathleen Turner, eseguendo una reunion di lei e Douglas che rimanda ai loro film degli anni ’80. Realizza pienamente l’obiettivo di fare un Grace & Frankie maschile, una commedia sulla vita degli uomini anziani, anche se la serie con Jane Fonda e Lily Tomlin è decisamente superiore in simpatia. Su Netflix.

Ordeal by Innocence della BBC

Recuperi — Le miniserie BBC di Agatha Christie del 2018

The ABC Murders, 3 puntate. Non ho letto il libro, ma mi pare di capire che la serie ne riprende la struttura — decisamente innovativa per l’epoca e che ha fatto scuola, come d’altra parte tante delle opere di Agatha Christie. Certi particolari invece non provengono dal testo, ma sono stati voluti dall’autrice Sarah Phelps (che ha fatto anche la bella And Then There Were None del 2015 e i successivi adattamenti BBC sempre da Christie). In questo caso siamo davanti a un’avventura di Poirot, mentre tutte le altre miniserie sono prese da romanzi senza detective famosi. Un rischio, quello di rivisitare un personaggio così sedimentato nella cultura popolare, specie se lo si fa con lo spirito con cui Phelps mette le mani a questi materiali: l’intenzione è quella di renderli originali a ogni costo, vista la quantità di trasposizioni che hanno già visto la luce durante quasi un secolo.

In questo caso, l’atmosfera è tetra, Poirot è vecchio e dimenticato, ma non solo: è un rifugiato di guerra in una società sempre più xenofoba. È un Poirot sofferente, tormentato da ricordi traumatici, interpretato da John Malkovich. A un certo punto c’è pure un discorso sullo schifo per la nostalgia di un passato rassicurante che non esiste, perché il punto della miniserie è che quest’Inghilterra anni ’30 di rassicurante non ha proprio nulla, così come quella del presente. C’è un incedere vagamente horror per una serie di Natale che non è in nessun modo un confortante ritorno a qualcosa di conosciuto; e infatti persino la backstory di Poirot è cambiata. Questo fatto in particolare, unito alla tetraggine generale, ha dato sui nervi alle tante persone che hanno recensito lo show con commenti piuttosto negativi. In parte è comprensibile, anche se siamo pericolosamente in zona “infanzie violate”: Poirot era quella cosa là e qui invece è completamente diverso, elemento al servizio di un’idea non sempre adeguatamente sviluppata. Può non piacere, ma è un caso di studio molto interessante.

Ordeal by Innocence, 3 puntate. Ancora Sarah Phelps, questa volta in onda non a Natale ma nella primavera del 2018. Rimane lo stesso approccio di dare un’impronta particolare al soggetto. Vista la notorietà delle trame di Christie, in questo caso c’è un rimaneggiamento importante del plot. L’atmosfera ancora una volta è lugubre, ma non nello stesso modo degli ABC Murders. Qui siamo più vicini al classico, c’è una villa, una famiglia estesa piena di segreti. La miniserie tutto sommato è un domestic thriller che scava nel vizio: se ci fosse anche la commedia sarebbe Desperate Housewives, ma il piglio è diverso e non c’è molto da ridere. Cast di eccellenze britanniche che dovrebbero risultare familiari a chiunque abbia mai visto qualcosa girato da quelle parti nell’ultimo decennio. Il risultato non è male, ma con una durata complessiva di 3 ore la storia arriva alla fine col fiato cortissimo.

In generale, queste miniserie BBC sono visioni interessantissime soprattutto per studiare come Phelps lavora sul concetto di adattamento del classico. Non mi ha convinta completamente con le soluzioni che ha trovato, ma apprezzo il tentativo coraggioso che ha fatto. A oggi, sta lavorando a un ulteriore adattamento da Christie, The Pale Horse, che però pare non essere quello previsto per Natale. Alla fine di dicembre dovrebbe arrivare un’altra trasposizione da un romanzo singolo (senza Poirot o Miss Marple), ovvero Death Comes As The End, ambientato nell’antico Egitto, il cui adattamento è curato da Gwyneth Hughes. Non è però ancora ufficialmente confermata la sua uscita a Natale.

Continuate da ottobre

This Is Us, stagione 4, da 4x03 a 4x08. Nonostante la ripetitività dello show, continua a colpirmi l’acume della scrittura da un punto di vista tecnico. Gli episodi si basano su incastri di piccole sottotrame, tutte esistenti in timeline diverse (anche 4 o 5 per volta) e speculari tra loro. I singoli archi sono piuttosto brevi, ma la giustapposizione tra loro genera ogni volta una puntata completa, con un suo arco generale ben preciso, a dispetto dei continui salti temporali. In questo, la trovo scrittura da manuale, avanzatissima per la complessità con cui affronta il fattore cronologico, pur riprendendo un modello televisivo classico (la trama orizzontale avanza, ma c’è il racconto verticale). L’altro meccanismo amatissimo dai suoi sceneggiatori è il teaser continuo, l’accenno a spunti di trama il cui sviluppo e scioglimento viene sempre rimandato al futuro. A esso sommano un altro artificio un po’ sadico, cioè quello di disattendere puntualmente qualsiasi aspettativa volutamente creata. Si può passare una stagione intera solo a congetturare quello che accadrà nella scena successiva. Diciamo che è una serie molto consapevole di esserlo, e questo la rende più godibile nonostante la carica iniziale si sia progressivamente sgonfiata. Su NBC.

The Affair, finale di serie. Bè, che dire. Per tutta la stagione ho pensato “No dai no non possono farlo veramente”, #einvece. Tutto sommato, ha senso: Sarah Treem non è una femminista della quarta onda e ce lo ha fatto capire in ogni modo possibile per 5 stagioni. Il personaggio di Helen riassume la faccenda in modo equilibrato: se a me va bene, se per me l’amore funziona così, perché devo sentirmi un’idiota? Posso vivermelo? Certo Helen che puoi, fai benissimo, noi magari cercheremo di non seguire il tuo esempio ma se per te così è meglio, io non ti dico niente. Vista l’attitudine incredibilmente trash della sottotrama di Joanie, quando la serie finisce 30 anni dopo proprio in quella sottotrama, i toni sono deliranti, come il balletto che fa Noah nell’ultima scena. Nonostante tutto, mi mancherà. Su Showtime.

American Horror Story — 1984, ultimi episodi. Stagione sobria e divertente, con tante scene memorabili (una su tutte: Margaret nell’ultima puntata). I veri giganti della stagione sono Billie Lourd nei panni di Montana e il meraviglioso disperato Mr Jingles di John Carroll Lynch. Adorabile Cody Fern, che spero di vedere in più ruoli sopra le righe come questo. Esilarante ogni apparizione di Ricky Ramirez con satan satan satan in sottofondo. L’ho già detto e lo ripeto qui: se è vero che ci saranno altre DIECI stagioni di AHS, io sono contenta. Su FX (per ora…).

Evil, stagione 1 fino a 1x08. Di questa serie ho parlato già diffusamente nella puntata precedente, non ho molto da aggiungere. Funziona benissimo quando si concentra sulle storie familiari della protagonista, risulta più dispersiva quando segue le vicende professionali ma lascia intendere che tutto andrà a convergere a un certo punto. Io sono superfan dei King per cui mi trovo veramente a casa qui con Evil, che è stata una delle mie novità preferite di quest’anno anche se è una serie che nessuno caga. Su CBS.

How to Get Away with Murder, stagione 6 fino a 6x09: OMG che midseason finale! È giusto così: questa è l’ultima stagione, bisogna dare tutto. Su ABC.

The Good Place, stagione 4 fino a 4x09. Carina, meglio della 3° stagione. Simpatiche alcune gag, ma per me la prima stagione era un’altra cosa. Rimane comunque su un modello simile, cioè la commedia serrata dai tanti colpi di scena, che è un bene; ma la posta in gioco andando avanti si è come sgonfiata, non si trattiene più il respiro come nelle prime puntate, non c’è più nulla su cui speculare; insomma, si è persa la struttura che parodiava Lost, ma non è stata sostituita da qualcosa di altrettanto entusiasmante. Su NBC.

Rewatch

Desperate Housewives, stagione 5. Stagione senza particolari scossoni, con una trama orizzontale dilatata all’inverosimile (lo psicopatico Dave) e una terribile dipartita, quella di Edie, che nel mondo reale è finita in una causa legale intentata dall’attrice. Serie sempre in equilibrio sui suoi valori repubblicani, di cui ogni tanto appare il bisogno di ampliare i consensi (apertura alle coppie gay). La stagione introduce con intelligenza due elementi che la rendono peculiare: un salto in avanti di 5 anni, che apre a spunti intelligenti (Gaby ha due figlie, Susan ha divorziato) e il tentativo di rispecchiare il presente del credit crunch (2008/2009) attribuendo problemi economici alle altrimenti benestanti housewives, che ora lavorano quasi tutte.

Nonostante la sua prospettiva sia distante dalla mia sensibilità, trovo che sotto l’aspetto strettamente tecnico la serie sia invecchiata bene: il suo modello narrativo non sarebbe (non sarà) fuori posto nella televisione/streaming del presente: tiro orizzontale quasi da soap opera, che potrebbe durare all’infinito, ma una grande capacità di mischiarlo all’autoconclusivo di ogni singolo episodio (come la coeva Lost); estetica impeccabile, con uno stile definitissimo; personaggi che spiccano, cast iconico. Penso a Big Little Lies, una serie che sembra avere come obiettivo la trasformazione di Desperate Housewives in un suo clone pensato per la prestige tv: probabilmente Big Little Lies nel prossimo decennio scomparirà, e al suo posto assisteremo al ritorno a qualcosa di molto più simile al modello originale. Se volete (ri)guardarla, è su Prime Video.

Scrubs, stagione 1, primi episodi. Quello che era fastidioso all’epoca (un punto di vista strettamente sessista, ipocritamente scusato dalla cuteness di John Dorian, spacciato come modello di mascolinità non tossica), oggi mi risulta intollerabile: sono cresciuta con una tv del genere, che proponeva come accettabili dei comportamenti che non lo erano, e oggi se la rivedo mi viene voglia di spaccare il televisore. Per il resto, è divertente rivedere i rantoli del Doctor Cox e le persecuzioni del Janitor, ma non sono bastati a convincermi a fare un rewatch vero, mentre invece Desperate Housewives ci è riuscita e sono ancora lì che la guardo anche se è un po’ nazi. Su Prime Video.

Mi mancano

See, stagione 1, Daybreak, stagione 1, The End of the Fucking World, stagione 2, For All Mankind, stagione 1.

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Sara Mazzoni
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Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

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