SERIE TV e STREAMING Marzo 2020
Ho guardato la tv e mi ha fatto cagare quasi tutto
Come per tutti, non è un gran periodo, invaso più del solito da stress e ansia. Ho sempre meno pazienza per le serie che non mi dicono granché, che purtroppo sono la maggioranza. Intanto, nel mezzo del disastro, è uscita una nuova piattaforma streaming. La sua pubblicità più o meno dichiarata sta martellando la mia bolla con un’insistenza insopportabile. Qui non ne troverete traccia.
Novità
Devs, fino a 1x05. Ho scritto due brevi commenti che illustrano il mio pensiero, uno dopo la terza puntata e un altro dopo la quinta, uscita qualche giorno fa. In generale, sono delusa dallo sviluppo fatto da Alex Garland. Le premesse mi piacciono, rientrano esattamente in quel tipo di fantascienza che preferisco. Ci sono però problemi nella struttura narrativa seriale che mettono in risalto alcune carenze nell’approccio alla materia. Per ora mi sembra un buon soggetto per un film, adattato male al formato da miniserie. L’estetica e le atmosfere sono invece più riuscite e rendono la visione comunque non spiacevole, ma è un’occasione sprecata.
Bloodride, stagione 1. Serie antologica horror norvegese uscita su Netflix. Non ha quasi nulla da dire, né di nuovo, né di interessante. L’unico sforzo percepibile è quello di imbastire tutto su dei plot twist, molti dei quali telefonatissimi. Non c’è un particolare gusto, non c’è un’idea di horror, non c’è una poetica, non ci sono praticamente neanche contenuti che vadano un millimetro oltre al meccanismo di trama. Inutile.
Mythic Quest: Raven’s Banquet, stagione 1. Non mi è piaciuta. Problema principale: il suo umorismo è sgonfissimo. Sembra scritta da un software che ha individuato due o tre temi chiave che in teoria dovrebbero combinarsi alla grande messi insieme. Mancano però sia la capacità di rendere questi argomenti davvero vibranti, sia quella di fare ridere. Ovvero: non è sufficiente inserire il discorso “discriminazione nel mondo dei videogame” per meritarsi una lode. La serie è mediocre.
The Pale Horse, miniserie. L’ultimo adattamento di Agatha Christie fatto da Sarah Phelps, riprendendo la tradizione folk horror inglese. Ne ho scritto una recensione dettagliata.
Ritorni
Better Call Saul, stagione 5 fino a 5x05. L’ho sempre trovata discontinua, alcune parti di questa serie mi sono piaciute, altre mi sono risultate incredibilmente vuote e pallose. Quest’anno l’impressione è che gliel’abbiano data su. Mi era piaciuta molto tutta la storia degli operai tedeschi nella stagione 4, creava un concreto senso di minaccia e scelte terribili da compiere. Quest’anno sento il nulla e tantissima banalità. Ingegno al minimo sindacale. Mike ha una pulsione di morte noiosissima. Saul è diventato Saul ma non è che la cosa abbia più tutta quest’importanza, anzi, è passata in secondo piano. Kim è davanti a una biforcazione esistenziale, okay, ma è una biforcazione esistenziale davvero poco interessante. Questa è una serie che funziona quando spende il proprio minimalismo come una cassa di risonanza per questioni macroscopiche, ma in questa prima metà stagione non c’è riuscita nemmeno per sbaglio.
Westworld, stagione 3, fino a 3x03. Mi esprimerò più avanti, ma di stronzate ne ho già viste parecchie. Mi piace Dolores versione Matrix, anche perché mi ero stufata di vederla con quel gonnellino. Aaron Paul abbastanza patetico, personaggio per ora scritto peggio di tutto lo show. Vincent Cassel può essere solo l’avatar di Rehoboam, da quanto è attaccato con lo sputo sulla storia. Comunque, prendiamo ‘sta serie per quel che è e vediamo che succede.
Continuate da febbraio
High Fidelity, stagione 1. A visione ultimata, vale quello che scrivevo su Facebook qualche settimana fa:
«Ne parlavo l’altro giorno a proposito del pilot di High Fidelity, per me ben riuscito: è difficile sbagliare questo adattamento, vista la struttura micidiale dei testi da cui è tratta la serie. Dopo aver visto 4 puntate, direi che lo show però ci mette anche del suo, non tanto per rendersi attuale (e lo fa), ma per migliorare dove è possibile. Il genderswap che ci dà come protagonista Zoë Kravitz è particolarmente riuscito. Il materiale d’origine funzionava, ma aveva un protagonista insopportabile; il personaggio di Kravitz alleggerisce la mistura senza però alterarla — i difetti voluti sono sempre lì, ma con una nota di vulnerabilità che non la rende odiosa. Nel senso: bello tutto, libro film serie, in questo caso apprezzo particolarmente il lavoro fatto dalle due autrici dello show, Veronica West & Sarah Kucserka, che rispolverano un materiale ormai vecchio di vent’anni.
Poi in questo caso c’è la finezza speciale di mettere la figlia di Lisa Bonet e Lenny Kravitz nei panni della proprietaria del negozio. Il padre è un’icona rock, mentre la madre interpretava un personaggio fighissimo che non viene trattato molto bene nel film del 2000. È come se le due autrici si fossero chieste se non sarebbe stato ancora meglio avere come protagonista quella musicista tanto interessante con cui andava a letto John Cusack — tra l’altro, come personaggio era già di per sé molto simile a lui, soltanto meno antipatica. In risposta, hanno evocato proprio Zoë Kravitz, o almeno io questa storia me la voglio immaginare così.
Il pop e il rock sono quasi sempre importanti nelle comedy televisive (pensate a Sex Education). High Fidelity è ambientata in un contesto in cui la musica è ancora più importante, non solo perché c’è il negozio di dischi. Le singole canzoni e il loro ruolo nelle playlist sono un tema caro a chiunque esistesse già in un mondo pre-streaming. Nelle prime puntate, la serie mette il riflettore sul paragone tra compilation di canzoni e compilation di esperienze sentimentali, due degli argomenti più relatable che si potessero intercettare. Alla fine è così che guardiamo al nostro passato quando ci mettiamo a tirare le somme: le puntate di una serie, le canzoni di una playlist, la compilation degli psicopatici che ho incontrato nella mia vita e via discorrendo. Per me la vera figata delle commedie romantiche non è quando un personaggio deve conquistare l’oggetto dei suoi desideri, ma quando viene mostrata la galleria dei vari archetipi che ha incontrato lungo la strada. Per questo dicevo che High Fidelity ha una struttura micidiale già dai tempi del film di Stephen Frears, perché tutto si poggia su questo».
The Outsider, episodio 1x07. Allora, ci ho riprovato perché mi dispiaceva non finire questa miniserie dopo averne vista più di metà. Però questo episodio mi ha fatta proprio incazzare e non sono ancora riuscita a pensare di vedere gli altri 3 che restano. Un aspetto che trovo insopportabile è il modo in cui le cose succedono a caso, solo perché agli sceneggiatori fa comodo che sia così. In questa puntata il fenomeno è talmente eclatante, che a un certo punto persino uno dei personaggi lo commenta. Chiede perché il detective abbia ritenuto necessario andare proprio in un certo luogo rivelatosi importantissimo, e la risposta che viene data nemmeno risponde alla domanda, è fuffa.
Questo dimostra quanto faccia cagare la scrittura di The Outsider: 1) i personaggi fanno cose convenienti allo sviluppo della trama, senza apparenti ragioni; 2) gli sceneggiatori se ne rendono conto e pensano: «Uhm c’è qualcosa che posso fare per rimediare?»; 3) invece di dare un senso alle azioni dei personaggi, inseriscono svogliatamente una battuta nei dialoghi che attira tutta l’attenzione su questa svista e genera una battuta la cui unica finalità è l’esposizione; 4) colmo dei colmi: l’esposizione non spiega niente, rende solo più evidente che l’elemento centrale della puntata è una stronzata colossale. Qui la sensazione è che neanche un software avrebbe scritto l’episodio così male. Ci sono delle serie “minori”, tipo Castle Rock, che sono piene di difetti ma anche traboccanti di sgurz, di carisma, di divertimento. Poi c’è robaccia come questa, che si dà il tono con le musiche ominose e il lento incedere della camera, ma dentro c’è solo il nulla cosmico infiocchettato male.
Recuperi
Inside N° 9, stagioni 1 e 2. Siccome sapevo che prima o poi sarebbe arrivata un’emergenza di qualche tipo (personale o globale) e che sarei stata chiusa in casa per lungo tempo, mi ero conservata questa serie consigliatissima e rinomatissima. In effetti, è stata la visione migliore di tutto marzo, il che la dice lunga sulle nuove uscite.
Inside N° 9 rientra in quella tradizione weird che viene dalla letteratura ed è sempre stata presentissima nella tv british. Gli autori sono Reece Shearsmith e Steve Pemberton, di cui a suo tempo avevo visto e apprezzato Psychoville. Sono ex collaboratori di Mark Gatiss e Jeremy Dyson, gente di commedia che però è strettamente legata all’horror. Infatti Inside N° 9 riprende un misto di black humor e terrore puro che mi sembra chiaramente ispirato ai Tales of the Unexpected di Roald Dahl, che sono stati anche una serie tv alla fine degli anni ’70 — lasciando in pace The Twilight Zone.
In Inside N° 9 ci sono delle costanti. La serie è antologica, ma Shearsmith e Pemberton sono in tutte le puntate, ogni volta in panni molto diversi (rimandando all’idea di varietà comico da cui provengono, dando però loro la possibilità di mostrare una serie di sfumature drammatiche). L’azione si svolge in un luogo circoscritto, a volte con unità di tempo, a volte no (personalmente mi piacciono di più le puntate in cui questa unità non c’è). La struttura degli episodi è basata sui plot twist, la cui attesa da parte del pubblico diventa parte integrante del meccanismo di suspense. Tutto quello che si trova in mezzo agli snodi di trama non è però un riempitivo sterile, grazie a una scrittura metodica che divide tutto in piccoli atti e li riempie non solo di conflitti e sottotesti, ma anche di dialoghi brillanti.
Non tutti gli episodi sono belli allo stesso modo, ma la qualità generale è altissima. Questo dipende a mio parere da un lavoro molto serio di scrittura e di progettazione dello show, lavoro che spesso nello streaming odierno sembra mancare anche in presenza di budget non da fame.
Rewatch
Desperate Housewives, stagioni 7 e 8. La stagione 7 è loffissima, una delle peggiori. L’ottava, invece, è uno di quei rari casi in cui la stagione conclusiva di una serie è forse la migliore in assoluto. La sto ancora vedendo, ho appena passato il mid-season finale. Ancora una volta, Desperate Housewives precorre quello che verrà dopo di lei: Big Little Lies viene direttamente da qua. Il finale della stagione 7 apre infatti la trama principale della stagione successiva, con il climax verso cui Desperate Housewives si è sempre protesa. Le protagoniste partecipano tutte insieme a un delitto, per proteggere una di loro da un uomo persecutore che ha abusato di lei. Le conseguenze destabilizzano gli equilibri tra le amiche e la vita della loro piccola comunità. Ci sono grandi momenti e grandi ritorni (Orson e il fantasma di Mary Alice, per dirne un paio). C’è una sottotrama devastante con la morte della signora McCluskey, che anticipa di qualche settimana la morte nel mondo reale di Kathryn Joosten, l’attrice che la interpretava e che ha letteralmente messo in scena la propria dipartita. C’è un mid-season finale cattivissimo, che fa fuori senza alcuna pietà uno dei personaggi principali. Ma la cosa che mi piace di più credo sia la separazione tra Tom e Lynette, che se non ricordo male diventa permanente con la fine della stagione [EDIT: non diventa permanente, lo desideravo così tanto che nella mia memoria si era distorto il ricordo].
Colombo, stagione 1. Ho scritto una riflessione su questa serie storica, la trovate qua.
Non ho visto e forse non guarderò neanche
Un sacco di roba che non mi interessa. Tutto quello che mi stanca il cervello per niente. Le serie che girano su loro stesse senza avere davvero qualcosa da dire. Più aumenta l’offerta, meno voglia ho di guardare show che sono repliche delle repliche delle repliche, sullo spettro delle variazioni minimali. Non voglio i dialoghi fiacchi, l’esposizione pigra, le coincidenze troppo convenienti, i colpi di scena idioti. Non voglio gli episodi filler, le stagioni filler, le serie filler, le piattaforme filler. Non voglio le protagoniste bianche borghesi complicate e volitive. Non voglio le buone idee scoppiate come bolle di sapone.