SERIE TV e STREAMING — Estate 2020

I May Destroy You, Lovecraft Country, Mrs America

Sara Mazzoni
15 min readSep 23, 2020

Ora che finalmente il calore se n’è andato, tiro le somme di quanto visto tra giugno e agosto 2020. Su alcune cose passerò alla velocità della luce, se no finisco l’anno prossimo, ma su altre mi soffermerò con la dovuta attenzione.

Novità

I May Destroy You, stagione 1. Serie di Michaela Coel per BBC One e HBO, è una delle novità migliori del 2020. Content warning: stupro, rape culture, alcol e droghe. La serie sconvolge lo schema del dramedy millennial, prendendone un personaggio tipico — la scrittrice sballata — per portarlo in territori più esplicitamente drammatici. Lo stile è movimentato, quasi angoscioso, nonostante battute e gag abbondino e siano sempre molto divertenti. Fin dall’inizio, prima che la serie riveli il proprio tema principale, si avverte sempre qualcosa di sinistro e inafferrabile sottotraccia. C’è un’impronta di realismo in tutto quanto, a rendere volutamente più grotteschi alcuni momenti che potrebbero essere raccontati in mille altri modi. Il rapporto della protagonista Arabella con alcol e droghe è privo di romanticizzazione, anche se lo show resta sempre vagamente ambiguo sul tema.

L’essenza del racconto viene rivelata alla fine del pilot: I May Destroy You parla di stupro e di rape culture. Ma non è solo la storia di una ragazza che deve ricostruire cosa le è successo durante una notte di baldoria di cui le sono rimasti solo alcuni inquietanti flashback e una ferita sulla fronte; è una panoramica di tanti altri comportamenti di prevaricazione e abuso, solo apparentemente meno gravi rispetto a quello che è successo ad Arabella — che è poi la trasposizione di ciò che è realmente accaduto all’autrice e interprete Michaela Coel. I May Destroy You non è interessante soltanto per lo sguardo nuovo sul tema, ma anche per come utilizza i linguaggi comedy e dramedy, facendoli vorticare intorno a un nucleo thriller e creando un’opera completamente originale per il funambolismo con cui affronta la contaminazione (è quasi un nuovo genere). Anche se ho trovato i personaggi respingenti, il livello della scrittura è tra i più alti dell’anno. Curiosità: c’è anche una sezione ambientata in Italia con una bella colonna sonora trap locale.

Never Have I Ever, stagione 1. Validissima commedia Netflix creata dall’ottima Mindy Kaling. Teen drama rom-com che parte brillante sul divertimento e poi diventa più drammatico, comunque regge molto bene fino in fondo. La voce narrante che commenta tutto e che parla un po’ come Kaling non è lei, ma il tennista John McEnroe, una scelta esilarante che difficilmente qualcuno riuscirà mai a battere sul piano delle gag non-sense. Come fanno le commedie che preferisco del presente, mette in fila i cliché del caso rivisitandoli, equilibrando sovvertimenti e uso classico. Direi sopra la media nel suo sottogenere e anche come commedia in generale.

Lovecraft Country, primi 4 episodi. Serie HBO di Misha Green, prodotta da Jordan Peele insieme a J.J. Abrams. Adattamento di un romanzo, è un fantasy/horror che rivisita alcuni trope dei generi con una chiave di lettura antirazzista. L’avventura è in costume, nell’America degli anni ’50. I protagonisti sono afroamericani la cui vita è continuamente minacciata anche solo guidando per la strada — proprio come oggi. La terra lovecraftiana del titolo è popolata da mostri e fantasmi, che però non sono nulla di fronte alla cattiveria dei mostri umani: la polizia, in primo luogo, e la rete occulta di suprematismo bianco di cui essa è un’estensione.

Le parti coi mostri sono per lo più di azione divertente, con una certa quantità di gore, mentre a fare davvero paura c’è tutto il resto, cioè la persecuzione subita dai protagonisti neri. L’allegoria ogni tanto può risultare didascalica, come però accade normalmente in tante serie comunque ben riuscite (tipo Chilling Adventures of Sabrina). La visione che fornisce è assolutamente necessaria, visto che l’appropriazione e il ribaltamento di certi temi lovecraftiani razzisti e xenofobi è una tendenza ancora relativamente nuova in tv (e questo della riappropriazione è anche l’unico vero modo per fare sopravvivere l’opera di Lovecraft, direi). Sul tema di “racecraft”, ovvero la sovversione dei suoi trope, vi rimando a questo articolo.

È una serie molto (troppo) HBO nei toni magniloquenti, mentre lo spirito di fondo sarebbe più da American Horror Story, cioè l’antitesi della linea da HBO del prendersi sempre sul serio; per cui qualcosa stride sempre. Mi piacciono tutti i temi da cui parte e il ribaltamento dei cliché horror dal punto di vista afroamericano. Per ora il picco positivo l’ho trovato nel pilot, nella parte terrificante delle persecuzioni della polizia, e anche negli episodi successivi le sezioni simili sono state sempre una spanna sopra alle altre.

L’aspetto fantasy per adesso mi lascia indifferente. Non sto per nulla apprezzando lo stile narrativo, che trovo spesso carente. Scene inutili, dialoghi troppo lunghi e dispersivi che rendono difficile seguire la storia, caratterizzazione macchiettistica dei personaggi, in particolare della “femmina energica e passionale” Leti, interpretata da Jurnee Smollett. Nonostante ci sia tanto che mi interessa, sto faticando a mantenere l’entusiasmo.

Mrs America, miniserie. Un bel dramma politico sulla storia del femminismo americano negli anni ’70, con un cast eccellente (Cate Blanchett, Margo Martindale, Tracey Ullman e un sacco di altra gente). Su FX on Hulu. Da un lato c’è il Women Liberation Movement, che concentra le varie diverse tendenze del femminismo americano, mostrandone anche i contrasti. Le loro antagoniste sono un gruppo di ricche casalinghe di destra, che combattono contro i diritti delle donne per la paura di perdere qualcosa ottenendo la parità. Sono istigate dalla retorica della leader Phyllis Schlafly, che propaganda fake news convincendo le sue pari che gli alimenti in caso di divorzio saranno cancellati e che le loro figlie diventeranno soggette alla leva obbligatoria.

Non è soltanto una serie in costume, ma un resoconto della lotta per il diritto di aborto che a questo punto parla più al presente che al passato. E non è una semplice celebrazione, perché oggi negli USA (ma anche qua) questa lotta ha bisogno di essere combattuta di nuovo. Lo show si impegna ad analizzare a fondo la figura di Schlafly, casalinga robotica che si autoassegna il ruolo di terminator di tutti i femminismi, prendendo in esame le sue motivazioni e contraddizioni (che sono molte), rendendola in un certo senso la vera protagonista. La serie ne mostra le scorrettezze dialettiche, la tendenza a mentire e le fantasie di potere, senza risparmiarsi riguardo alle discriminazioni a cui lei stessa è sottoposta in quanto femmina. Sono evidenziati anche i suoi rapporti col suprematismo bianco, senza il cui supporto il suo gruppo di pressione non sarebbe stato altrettanto influente. La vera eroina della serie ovviamente è Gloria Steinem, presentata come una rockstar e protagonista di una sottotrama che racconta la sua ascesa a leader femminista, proponendo lei e solo lei come guida necessaria a rendere davvero efficace il movimento.

Little Fires Everywhere, miniserie Hulu, da noi su Prime. Adattamento sviluppato da Liz Tigelaar del romanzo di Celeste Ng, rientra in quella categoria di narrazioni realistiche e drammatiche targhettizzate su un pubblico femminile occidentale. Ha qualcosa in comune con Mrs America per come caratterizza Elena, la protagonista bianca interpretata da Reese Witherspoon, che finisce per somigliare a Phyllis Schlafly — tant’è che ci sono un paio di sequenze molto simili a quelle di Mrs America per descrivere l’incubo della maternità quando essa ricade interamente sulle spalle della donna come nel modello di famiglia borghese da cui provengono sia Schlafly, sia Elena.

Anche qui, come in Mrs America, la vera protagonista è una donna che la narrazione trasformerà nella villain della situazione. Il conflitto nasce dall’arrivo nel suo sobborgo bianchissimo di Mia (Kerry Washington), un’artista afroamericana, e della sua figlia geniale. La parte più interessante dello show è il racconto dell’ossessione di Elena per questa donna non conforme ai suoi pregiudizi. Le motivazioni della protagonista bianca sono sempre basate nel razzismo, anche quando si sforza di fare “buone azioni”. Ogni sua pretesa di antirazzismo è puramente performativa, in una trappola a cui non riesce mai a scappare. Funziona perché fa vedere come il trope del white savior sia in realtà soltanto razzista. Lo sviluppo dell’intreccio però non mi è piaciuto, ho trovato esagerati i toni con cui viene gestita la trama centrale, che parla di adozione, e come viene trattato il personaggio di Mia, sempre respingente e caricaturale.

Perry Mason, prime puntate della stagione 1. L’ho iniziato per due motivi: Matthew Rhys intepreta Perry Mason e per una roba che mi ero spoilerata che fin qui però non si è rivelata vera, per cui passiamo oltre. Non è né un legal drama, né una serie con casi di puntata. Si tratta di una sola avventura tutta orizzontale, un giallo a episodi. È una origin story di genere hard boiled in cui Mason non è ancora avvocato ma investigatore privato, un personaggio classico del filone (traumi, tatuaggio, famiglia abbandonata, alcolista, caratteraccio etc). Sul suo percorso ci sono alcune presenze femminili forti, interpretate da un bel cast. Spiccano Tatiana Maslany nel ruolo di una santona e Gayle Rankin (la ragazza lupo di GLOW) come madre devastata. I trope sono classici, ma per lo meno si sente il tentativo di fornirne una lettura contemporanea, altrimenti la serie non avrebbe davvero ragione d’essere. Anche questa è HBO in ogni aspetto, purtroppo come spesso accade è un po’ noiosa e sto faticando tantissimo a superare il quarto episodio.

Into the Night, stagione 1. Sembra una di quelle serie che uscivano a ridosso della fine di Lost, cercando di replicarne la formula senza aver capito che il punto non era la parte avventurosa ma il discorso sui personaggi. Questa ha la peculiarità di essere una produzione belga. Mediocrissima, può andare giusto quando non avete concentrazione.

Cursed, prime 2 puntate. Nuovo fantasy in costume Netflix. Ci ho provato, ma l’ho dovuta interrompere per via di un glitch che copriva lo schermo. A quel punto ho iniziato The Magicians che si è rivelata un milione di volte meglio, per cui non ci sono tornata per mesi. Quando finalmente è tornata visibile la puntata 1x02, ho potuto constatare che è una gran palla. Bello Re Artù che non è bianco, ma tutto il resto è scontatissimo e prevedibile, il racconto privo di ritmo come nella peggiore tradizione Netflix.

The Sinner, stagione 2. È una di quelle serie in cui sembra che ci sia stato uno sforzo calcolato per farle risultare mediocri e uccidere ogni parvenza di potenziale intravisto nella stagione precedente. In questo caso, mi piaceva la vulnerabilità che caratterizzava il detective interpretato da Bill Pullman (a cui sono affezionata fin dalle medie), ma il discorso si è stemperato e banalizzato. L’antagonista interpretata da Carrie Coon m’è parsa l’ennesima macchietta. Come nella prima stagione, il sesso è sempre raffigurato con un’accezione minacciosa e violenta. La storia è narrata senza guizzi, in modo sonnacchioso. La fotografia appiattisce tutto quello che rimane. Una perdita di tempo e uno spreco di interpreti.

Home Before Dark, pilot. Ci ho provato, ma mi annoiava anche questa.

Curon, prime due puntate. Bello il campanile ma no, non mi piace.

Dispatches from Elsewhere, inizio della prima puntata. Serie Prime scritta, diretta, prodotta e interpretata da Jason Segel. Non sto scherzando. Ho guardato 10 minuti e rivoglio The Lady.

Love Life, stagione 1. Riciclo il mio lungo post Facebook, per cui se lo avete già letto potete skippare direttamente al titoletto successivo, sotto alla prossima foto. Commedia romantica di HBO Max con Anna Kendrick. Complessivamente non è male, anche se per me ha avuto alti e bassi. Gli alti: fino a metà stagione mi è piaciuta di più perché fa una cosa che adoro nelle rom-com, e cioè presenta la carrellata di relazioni e tipi umani con cui il personaggio principale si confronta. Sono storie brevi che messe tutte in fila mostrano i diversi modi in cui una vicenda sentimentale può svilupparsi e perire, con tutte le nevrosi del caso sia nella protagonista, sia nei suoi “avversari”. Un altro aspetto che mi ha colpita nella prima metà è come viene inquadrata Darby, il personaggio interpretato da Kendrick. Non la trovavo una ragazza interessante, in effetti non lo è: la sua personalità è piallata in una mediocrità che però è funzionale a raccontarne le difficoltà relazionali, tra le quali finisce per spiccare un problema nel far sentire la propria voce. Darby è decisamente people pleaser, tranne quando non riesce a compiacere gli altri perché incontra qualche limite. Nel corso degli episodi, questa caratteristica che prima sembrava messa lì acriticamente diventa un tema del racconto, con un meccanismo fine che viene usato anche per qualche altro dettaglio che viene seminato per poi ingigantirsi.

Dopo il suo climax centrale, imperniato su questo discorso, il resto della stagione mi ha invece lasciata indifferente. M’è parso andare troppo secondo programma in maniera a volte forzata. C’è comunque una specie di twist, un elemento meritevole visto che si appoggia su un aspetto normalmente ignorato dalle commedie romantiche (non dico quale per non spoilerare, però se l’avete vista penso che capirete a cosa mi riferisco). Tutto il resto però è, come dire, un po’ ingessato. Mi lascia sempre perplessa, al di là di questo specifico show, seguire le vicende di una donna bianca cis-etero borghese magra etc, cioè la categoria più privilegiata al mondo dopo il suo corrispettivo maschile. Nel caso di Love Life, la protagonista finisce per risultare respingente perché nel suo sviluppo il suo successo viene celebrato acriticamente. Ma in questa prospettiva i suoi finiscono per risultare conflitti in cui è difficile investire per davvero. In più, le sono stati messi attorno come dei puntelli personaggi con caratteristiche diverse, ma che esistono sempre e solo per dimostrare l’integrità della protagonista (a partire dalla migliore amica asiatica e tossica, passando per un’altra amica senza alcun tratto personale, presente nella trama solo per essere nera e lesbica, come se venissero spuntate le solite caselline della rappresentazione fine a se stessa).

Questa trappola non funziona anche dal punto di vista formale, perché rende la protagonista sempre meno interessante una volta privata dei suoi conflitti principali, e butta via una bella occasione per esplorare davvero il suo problema di people pleasing, che pare risolversi come se le avessero fatto un esorcismo. Quello che rimane è solo una storia molto patinata, con qualche guizzo quando introduce un trope nuovo per la rom-com verso la fine. La serie è antologica ed è stata rinnovata per una seconda stagione. In questa prospettiva, l’idea del format in sé mi piace di più che se fosse stata semplicemente una miniserie: se il discorso finisse qua, mi sembrerebbe tutto sommato un po’ troppo poco importante per essere esplorato in dieci puntate.

Ritorni

Dark, stagione 3. Come saprete, sono una grande appassionata di questa serie. Le mie conclusioni sul suo ultimo ciclo le trovate su N3rdcore.

RuPaul’s Drag Race All Stars, stagione 5. Niente di diverso dal solito, ma è sempre una visione confortevole e ho apprezzato l’esito.

Kidding, prime puntate della stagione 2. Ho provato a riprendere questa serie di cui avevo gradito la prima stagione (la mia recensione è qua). Quest’anno la trovo ripetitiva e stucchevole e non sono riuscita ad andare avanti.

Recuperi

The Magicians, tutte le 5 stagioni. Riciclo da Facebook anche in questo caso. Serie SyFy di Sera Gamble e John McNamara, su Prime. Si tratta di un fantasy che avevo iniziato e abbandonato a suo tempo (fine 2015), perché il suo pilot non mi aveva detto nulla. Anche se nella prima stagione ci sono già i semi di quanto proliferà nelle successive, il consiglio è di andare avanti con fiducia, perché la vera natura della serie si rivela all’inizio della seconda stagione.

L’autrice, Sera Gamble, viene da Supernatural ed è quella che ha sviluppato la versione tv di You, un altro ottimo intrattenimento seriale, anche se di diverso genere. The Magicians è adattata da alcuni romanzi che non ho letto, ma guardandola si capisce che c’è parecchio di originale, che molte sue caratteristiche devono essere frutto della trasposizione di Gamble e non solo della fonte. La serie tv è una rivisitazione ultra-pop dei trope caratteristici del fantasy, parte da Narnia e tocca prima o poi qualsiasi luogo immaginario popolare. Remixa Harry Potter, Buffy e Charmed (e altre seicento cose), è MOLTO meta e autoironica, in un modo fortemente contemporaneo che mi ha fatto pensare a Roberto Aguirre-Sacasa — in particolare Riverdale, nonostante la vicinanza per genere sia Sabrina; ma io Riverdale la trovo noiosissima, invece The Magicians ha l’incredibile caratteristica di non stancarmi mai.

Questo succede perché è costruita come una giostra che non perde mai un colpo, in una corsa forsennata per sventare la solita sequela di apocalissi in crescendo alla Buffy, con un ritmo fatale pullulante di twist perfettamente cadenzati (non a caso trovate un andamento simile anche in You). La sua inventiva gioca col mondo della fanfiction, non ponendosi mai limiti e provando a immaginare in ogni puntata una possibile deviazione dal percorso preimpostato, presentandoci tutte le versioni possibili dei mondi e dei personaggi. Una specie di scrittura quantistica, in cui tutto esiste allo stesso tempo perché se nel mondo magico tutto è possibile, sarebbe triste non approfittarne. Gamble questa cosa la fa funzionare senza mai perdersi per strada, proprio perché né lo show, né i suoi personaggi si prendono troppo sul serio. Correndo sempre sul filo del ridicolo volontario, neutralizza tutto quello che potrebbe andare storto, e questo essere a culo col mondo è la vera potenza dei Magicians.

Andando avanti, i personaggi risultano amabilissimi perché intrecciati in una rete di relazioni che definirei spesso pan-romantiche/sessuali e poliamorose, con una particolare attenzione a non raccontare mai un mondo maschio-centrico nonostante ci sia uno pseudo-protagonista Harrypotteroso, la cui banalità viene a via a via decostruita dalla narrazione. Oltre a questo, un altro dei mille aspetti che me la fanno amare è che la serie non perde mai un secondo del prezioso tempo che le stiamo dedicando. Ha una gran passione per i dettagli (il mio preferito sono i conigli con la voce rauca) e spara tremila battute divertenti al secondo, tant’è che non ci si può distrarre un attimo.

Ora che è finita per sempre, le conseguenze per me sono disastrose: dopo essere stata esposta a tanto splendore, non riesco più a portare pazienza con cose tipo la HBO o le serie Netflix. Ora guardando Lovecraft Country mi metto a urlare contro alla tv: “E quindiiiiiiii???”, mentre i personaggi flemmatici aprono una bottiglia o girano attorno a un tavolo senza dirsi una parola; lancio roba contro allo schermo, quando vedo le sequenze di The Umbrella Academy in cui non succede niente e c’è solo una canzone di sottofondo mentre i personaggi pascolano nel nulla per dei minuti. Streaming rovinato in eterno, a meno che non trovi qualcosa di paragonabile a The Magicians.

Pagan Peak (Der Pass), stagione 1. Ho provato le prime due puntate su RaiPlay per l’ambientazione alpina e per il titolo, ma è nella categoria della palla mostruosa.

Skam Italia

Ho rivisto la stagione 2 e poi ho guardato la 3 e la 4. Qui ci sarebbe da scrivere un trattato, un papiro, una tesina di laurea che potrei vendervi se non sapete come farla, scherzo ovviamente wink wink. Siccome non ho più tempo, riprendo un mio post Facebook sulla serie in generale in cui ne parlavo molto bene. Ci sarebbero da fare un paio di postille molto negative invece riguardo alla stagione 3, ma non ho le energie per cui facciamo finta che non ci sia proprio mai stata.

Skam Italia è un concentrato di perfezione formale. Dà un senso di naturalezza a tutto, con la sua camera addosso ai personaggi, i particolari maniacalmente curati per essere credibili. Cast di gente capace, diretta bene, fuori da quell’anti-naturalezza di cui ci lamentiamo spesso quando guardiamo fiction e serie nostrane. Però a colpirmi più di tutto sono i dialoghi. Forse per il formato originale, che prevedeva la prima trasmissione in clip isolate, ogni singola scena deve dare il massimo. E si sente in ogni battuta. C’è la consapevolezza che ogni sillaba non deve andare sprecata, deve avere uno scopo o meglio, anche più di uno. In più, nella seconda stagione c’è anche un intento educativo in cui un messaggio edificante è portato al pubblico senza pesantezza ma con una certa efficacia (non si può dire la stessa cosa per ogni momento dell’intera serie, ma questo alla fine non c’entra col piano formale, che, come dicevo, è praticamente perfetto).

Stand Up Comedy

Doug, speciale stand-up di Hannah Gasdby su Netflix. Sequel di Nanette in cui Gasdby si concentra sul mostrare che sa far ridere, in quel senso la puntata è molto riuscita perché è davvero divertente, anche se autoreferenziale. Come comica se la cava benissimo e la visione è molto piacevole. Non mi ha lasciato granché e ogni tanto m’è parsa troppo concentrata sugli hater, comunque è da vedere assolutamente se avete apprezzato Nanette.

Legalize Everything, speciale stand-up di Eric Andre su Netflix. Sarà esagerato; sarà aggressivo; sarà persino troppo scemo, a volte, ma io continuo a volergli bene. Da vedere se siete già fan.

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Sara Mazzoni
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Written by Sara Mazzoni

Podcast: Attraverso Lo Schermo. Scrivo di cinema e televisione.

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