SERIE TV e STREAMING — Dicembre 2019
Un mese di fantasy mentre imperversano le streaming wars
Attenzione: non è un listone di fine anno, ma il solito recap che faccio tutti i mesi sulle serie che ho visto, belle, brutte o mediocri che siano. Le opinioni sono tutte libere e indipendenti, ma se volete mandarmi dei soldi a me va bene.
Novità
See, fino alla 1x05. Coi suoi primi episodi il fantasy post-apocalittico sviluppato da Steven Knight per Apple mi sta piacendo immensamente. Rispetto a Taboo e Peaky Blinders, noto un miglioramento di Knight nello sviluppo seriale delle storie. La premessa di questo show a mio avviso è strepitosa: nel futuro del dopocatastrofe, l’umanità è tornata alla vita tribale e tutti sono ciechi. La società non conosce la vista e quindi non è disabile: la serie rimette subito tutto in prospettiva, raccontando un mondo organizzato su altri sensi e mostrando le abilità dei suoi abitanti. In questo equilibrio, l’introduzione di persone che ci vedono porta problemi facili da immaginare. Apprezzo come lo show descrive l’arroganza dei vedenti, le loro mancanze date dal sottovalutare i ciechi e dal non sapere usare bene gli altri sensi. Non è tutto sempre perfettamente congruente e uno dei colpi di scena principali è intuibile già dall’inizio, però questi elementi non rovinano il risultato complessivo. Ambientazione suggestiva, scenografie e costumi adeguati, bello il cast sia per i volti noti, sia per gli sconosciuti. Sto apprezzando tantissimo See anche per come sembra ispirata dalla narrativa di Octavia Butler, e spero che spiani la strada ai suoi futuri adattamenti.
A Christmas Carol, miniserie in 3 episodi di FX e BBC. Adattamento di Steven Knight (di nuovo) della novella di Charles Dickens, imperdibile se amate i retelling quanto me. Pubblicizzata quasi come un horror, la miniserie è più che altro un fantasy tetro che sa essere fedele al racconto pur cambiandolo. Qui l’arco di Ebenezer Scrooge è quello di un bambino traumatizzato diventato capitalista senza scrupoli durante la rivoluzione industriale. Attualissima nell’enfatizzare quest’ultimo aspetto, la serie è ben costruita come racconto in atti strutturato su più puntate. Le sottotrame aggiuntive fanno il loro dovere, rendendo le quasi 3 ore scorrevoli proprio perché giustamente pensate in episodi. Il viaggio di Scrooge sembra un ciclo di psicoterapia, ma è evidente lo sforzo che Knight compie per non giustificare le nefandezze del protagonista, pur attribuendogli una origin story strappalacrime. Il lato dark fantasy è adeguatamente kitsch, con mia soddisfazione. Lo spirito del Natale passato è interpretato da Andy Serkis e forse per questa ragione occupa due episodi su tre.
The Witcher, prime 3 puntate. Fin qui, mi sembra una sorta di erede di quelle serie heroic fantasy anni ’90 tipo Xena, ma aggiornata alla tv/streaming contemporanea nel bene e nel male. Il male: la componente cestone Netflix nella scrittura (d’ora in avanti userò questo termine per riferirmi alle serie scritte a caso), ovvero quel tentativo puerile di farti stare lì più minuti del necessario e una scrittura disordinata nello strutturare stagione e sottotrame. Netflix, parlo con te: magari invece di studiare un modo per farci guardare le serie a velocità 1.5, potresti prendere in considerazione di ridurre il minutaggio degli episodi? Te la butto lì. L’algoritmo imperscrutabile ha invece qui partorito un format da 60 minuti, con episodi caotici perché seguono 3 sottotrame diverse che non sono sempre in equilibrio (noterete il bardo meta della 1x02 esclamare: “Inizia il secondo atto!” quando ormai siamo a metà puntata. Bardo, io te lo dico: qualcosa non ha funzionato).
Ma passiamo al bene: una volta accettate le sue ingenuità e i disequilibri, The Wicher non è una brutta serie. Io ci sto prendendo gusto. Mi sembra un fantasy pensato per un target femminile e woke, il che non guasta visto il materiale trattato. Non è sempre coerentissimo con questa premessa, però lo sforzo si sente e ripaga. La storia di Yennefer per ora ha fornito la vera trama orizzontale di cui ci può fregare qualcosa (quella di Ciri invece no), mentre il Witcher pare star lì solo per farci vedere Henry Cavill, magari discinto, che trasuda granitico dolore esistenziale. Direi che possiamo farcene una ragione.
Servant, stagione 1 fino a 1x06. Era partita benissimo, ma le puntate centrali allungano troppo il brodo, quasi come se si fosse riciclato il soggetto di un film senza riflettere bene sulla struttura in 10 episodi. Nei momenti buoni, presenta la caratteristica più figa del thriller psicologico, ovvero il giocare con la consapevolezza che il pubblico ha dei luoghi comuni del genere. In questo caso, la domanda con cui la serie si balocca per un po’ è se Servant sia un thriller ambientato in un universo realistico o se invece sia un horror sovrannaturale. Ogni episodio concentra una massa di indizi, false piste, allusioni velate e condizionamenti che possono dare vita a teorie diversissime tra loro. Tutto sottilmente pilotato da uno show che lancia la provocazione per una nuova teoria e la smantella sistematicamente poche scene dopo. Certo, il rischio della delusione finale è concreto, come sempre con questo tipo di racconto pieno di narratori inaffidabili e plot twist. Purtroppo andando avanti gli episodi sembrano meno necessari, filler in attesa degli svelamenti finali (che ancora non conosco), nonostante la compattezza del formato (rivoluzionari i 30 minuti per un thriller). Per quel che ho visto fin qua, penso che sarebbe stato meglio fornire più chiavi di interpretazione e più elementi tangibili; il continuo danzare attorno al nulla, per non rivelare niente, non ha più senso da parecchi episodi. Rimango comunque curiosa di arrivare in fondo. Anche qui siamo su Apple.
Truth to Be Told, fino a 1x06. Domestic thriller con elementi whodunit, con una sigla che sembra la parodia di True Detective. Scrittura grossolana, esposizione continua, personaggi che dichiarano letteralmente i propri sottotesti e motivazioni. Per questa ragione, mi sento di consigliarla se avete bisogno di una serie da guardare quando avete il cervello completamente scarico: non richiede nessun tipo di partecipazione da parte vostra. Il cast è carino, ci sono Octavia Spencer come protagonista, contornata da Lizzy Caplan e Aaron Paul. La prima serie Apple che sembra uscita direttamente dal famigerato cestone Netflix.
V Wars, primo episodio. A proposito di cestone, questa ha una particolare sfumatura di bruttezza. Mi spiace però parlare così del lavoro di qualcuno, non vorrei mai ferire i sentimenti del software che l’ha scritta.
Ritorni
Mrs Maisel, stagione 3. L’ho gradita molto più della stagione precedente perché è più ritmata, riporta Midge sul palco, ha più equilibrio tra commedia sentimentale e tutto il resto, a cui si aggiungono momenti di grande televisione. L’episodio cruciale per me è stato quello con Lenny Bruce, anche se è una sospensione della storia in sé. L’ho amato perché è un bellissimo omaggio alla televisione d’epoca, costruito con uno sguardo contemporaneo ma rispettosissimo dei codici che va a riprendere, in un gioco tra linguaggi. Molto immersivo e emotivamente coinvolgente, è il picco cinematico di Mrs Maisel (una serie che spende molto sul movimento, la scenografia, i costumi e tutte quelle cose su cui convenzionalmente la tv dovrebbe lesinare). L’arco stagionale è stato piacevole per tutti i personaggi, mi è piaciuto persino quello di Joel grazie alle vicende di Chinatown. Ci sono dei buchi di trama qua e là, ma si perdonano perché il contesto generale è buono. Giusto il finale di Midge, che si deve iniziare a confrontare col suo privilegio bianco e cisetero se no finiremo davvero per odiarla — se dovessi dare un consiglio a Amy Sherman-Palladino le direi proprio di lavorare ancora di più su questo, ma non sono sicura che capirebbe del tutto di cosa sto parlando. Su Prime Video.
You, stagione 2 fino a 2x06. Forse troppo smaccata a questo giro l’imitazione di Dexter. Ovviamente non era possibile riprodurre l’alchimia della prima stagione (leggo commenti molto simili nel passaggio tra il primo e il secondo romanzo), perché aveva senso come parabola compiuta. Rimane però un’opera simpatica per i suoi intenti satirici, qui trasferiti al mondo dei disperati questuanti di Hollywood. Love, la controparte femminile di Joe, è decisamente più solida rispetto alla stucchevole Beck della prima stagione. Com’era logico aspettarsi, il passaggio alla produzione Netflix conduce la serie molto più vicina allo spirito del cestone, con un dilagare di quella vena trash che evidentemente risulta vincente nei focus group del network (ormai la troviamo praticamente ovunque e le serie che avevano caratteristiche diverse sono state cancellate). Qui si riflette in snodi di trama completamente a caso, ma per lo meno supportati dalla precisione con cui vengono seminati indizi e false piste. You rimane troppo bellina anche nel trash, si guarda con entusiasmo perché sa fare la cosa più importante, cioè non annoiare.
Ray Donovan, stagione 7 fino a 7x05. Mi sono dovuta fare una ragione del fatto che ora Ray Donovan è stabile a New York (e misteriosamente tutti i suoi parenti lo hanno seguito). Dato per assunto che la serie ormai è bollita, finora è migliore della stagione precedente, che non ho per nulla gradito — era il più trito degli hard boiled, senza la cifra che caratterizzava lo show nelle prime stagioni. Los Angeles significava il confronto tra Ray e quel mondo patinato che lo incarica di sistemare le sue schifezze; qui almeno ne torna un pezzettino. Un’altro aspetto che ho gradito è lo sforzo di Ray per non essere più reattivo e violento: vederlo che si concentra e respira profondamente invece di usare la mazza è esilarante e mi commuove. I feel you, Ray. La parte di Mick e sua cognata Sandy è nettamente superiore a The Irishman come satira sui criminali anziani. Posso dire che Ray Donovan è una serie che guardo di nuovo volentieri, benché siano anni che si è esaurita. Su Netflix.
Rick & Morty, stagione 4 fino a 4x05. I primi due episodi mi hanno lasciata perplessa: sembrano un lungo dialogo schizoide nella testa di un Dan Harmon in conflitto con se stesso perché ha una fanbase tossica ma gli scoccia doversene occupare. Dalla 4x03 torna normale e inizia la parte divertente. Fin qua, ho trovato particolarmente bello l’episodio 4x05, quello col pianeta delle serpi. Su Netflix.
Continuate da novembre
Watchmen, fino alla fine della prima stagione. Mi è piaciuta molto, nonostante l’istintiva antipatia suscitata dall’hype che la precedeva: usciva come una potenziale serie dell’anno, fatto che mi ha fortemente demotivata. Ho trovato faticoso entrarci dentro perché la prima puntata in effetti è la peggiore, la più convenzionale. Ma andando avanti, cambia subito atteggiamento. È un lavoro di adattamento interessantissimo, che riesce a integrare con grazia un discorso sull’America contemporanea (il terrorismo bianco, la segregazione razziale su cui il paese è costruito) in un racconto avventurosissimo, surreale e fantascientifico. Come ritorno di Damon Lindelof a materiali più mainstream rispetto a The Leftovers, è perfetto. Mi sembra una serie che deve qualcosa a Legion, che l’ha preceduta non tanto come cinecomic d’autore ma soprattutto come cinecomic surrealista; Lindelof e il suo team hanno però fatto un lavoro migliore, più profondo, più scritto ma anche meraviglioso da vedere. È quindi giusto ritenerla una delle serie più riuscite del 2019. Su HBO.
Evil, stagione 1, fino a 1x10. Ne ho già parlato nei mesi scorsi. A questo punto posso dire con certezza che per me è una buona serie, una delle novità che mi hanno più entusiasmata sia per come porta le caratteristiche di The Good Wife/Fight in un contesto horror, sia per come riesce a cogliere lo spirito del tempo nel suo discorso sul bene e sul male. Essendo un procedurale ispirato a X-Files, trasposto però in un contesto di possessioni ed esorcisismi, non dice mai che i demoni esistono, ma neanche che non esistono. Sfrutta il suo punto di partenza per intercettare uno dei temi più attuali del momento negli USA, cioè la radicalizzazione di estremisti di destra che compiono attentati terroristici contro gruppi oppressi. Se penso a quante volte avete visto la stessa narrazione in serie come Homeland, ma sempre riguardo a persone musulmane, è davvero una boccata d’aria fresca la puntualità con cui i King si occupano di un fenomeno (tra l’altro sempre esistito nelle loro terre) troppo a lungo ignorato dai media. E sì, non lo scrivono esattamente in punta di penna, ma si fanno perdonare.
L’aspetto più efficace rimane quello di cui ho già discusso: le puntate dedicate a piccole storie del terrore, che finiscono sempre per ricollegarsi alla vita familiare della protagonista, raccontando gli intimi timori di chi deve proteggere i propri bambini in una contemporaneità digitale insidiosa. Questo è uno dei motivi per cui funziona davvero come horror: va a raccogliere paure elementari, del quotidiano, collegate a un tempo specifico, il presente (di cui i King sono sempre stati dei grandi cantori). La mitologia interna per ora è misteriosa, ma si capisce che c’è materiale per costruire ancora tanto. Su CBS.
The Morning Show, stagione 1. Una delle migliori novità dell’anno, ha tenuto fino alla fine, con un’infilata di episodi sempre più importanti e un ottimo finale di stagione. Seguono le riflessioni che avevo fatto prima dell’ultima puntata.
Nelle serie tv, spesso ci troviamo davanti all’Episodio Flashback. A volte arriva quando la stagione sta svoltando verso la conclusione e tutto precipita — spesso è una preparazione allo scioglimento finale. Ci mostra i personaggi che abbiamo già conosciuto, raccontando come erano prima dei fatti che li hanno definiti in un certo modo, quello narrato dalla trama del presente. Qualche esempio del 2019: la backstory di Anna Madrigal nella 1x08 di Tales of the City, a due puntate dalla fine, a svelare parte del mistero di stagione. In Carnival Row invece è collocato all’inizio, nella 1x03, e approfondisce la relazione tra i personaggi principali. In Russian Doll è nella 1x07, il pre-finale, che presenta il trauma della protagonista raccontandone l’infanzia. E così via.
Di solito si tratta per l’appunto di approfondimenti che spiegano le motivazioni dei protagonisti. Proprio per questa ragione, mi capita di sbuffare e trovarli a volte espedienti noiosi, delle esposizioni non sempre eleganti della scheda personaggio con la sua bio. Ci vengono forniti tutti quegli elementi nascosti che formano l’equilibrio dello script di un’intera stagione, perché non erano utilizzabili in un altro modo.
Con questo discorso voglio però arrivare alla 1x08 di The Morning Show, un episodio flashback che invece è perfetto. In questo caso, la sua presenza è necessaria non per carenze nella struttura della stagione, ma perché ne è giustamente la colonna portante. The Mornig Show parla delle cause e delle conseguenze del #MeToo usando il pubblico come un personaggio: testa su di noi la credibilità dei vari protagonisti, delle donne molestate e dei loro molestatori, di chi sapeva, di chi non fa mai nulla e di chi è un po’ in entrambe le squadre. Gioca narrativamente coi nostri pregiudizi, costruendo la stagione con un ritmo che a volte sconfessa, a volte conferma quello che stiamo pensando (ottimo il lavoro fatto su Steve Carell in questo senso).
L’episodio 8, Lonely at the Top, riposiziona tutti i personaggi mostrandoci dove e chi sono veramente. Questo cambia il modo in cui interpretiamo le informazioni ricevute in precedenza e influenza quelle che riceveremo in seguito. La puntata 1x09, Play the Queen, presenta infatti uno dei plot point più importanti, in un monologo di Jennifer Aniston che non avrebbe lo stesso valore senza la puntata flashback che l’ha preceduta: sappiamo di stare sì osservando una mossa ardita di quel mahjong menzionato nella sigla (o degli scacchi del titolo), ma sappiamo anche che probabilmente sta dicendo la verità (e la regina da giocare in questo caso è lei stessa, mentre per Mitch è Hannah). Senza spoilerare, il mio punto è: la scrittura di The Morning Show è anche più raffinata di quel che sembra in apparenza. La serie non è solo buona, è proprio ottima. Su Apple.
Castle Rock, stagione 2, fino alla fine. Serie imperfetta, fieramente minore, eppure affascinante, originale, al passo coi tempi ma fedele alla sua linea dark fantasy e horror. Interessante l’uso della malattia mentale fatto col personaggio di Annie Wilkes, anche se non scampa alla stigmatizzazione tipica di certi stereotipi horror/thriller (la persona malata è aggressiva, pericolosa, in un certo senso un mostro) (d’altra parte, il 2019 ha accolto con grande calore la rappresentazione fornita da Joker, per cui mi sento di poter parlare bene di Castle Rock). L’aspetto più efficace è il gioco derivato dal porre un personaggio che soffre di allucinazioni al cospetto di fenomeni sovrannaturali, così che non sappia mai con certezza se quello che esperisce sia reale o meno. Il pubblico è condotto a identificarsi con Annie e con la sua fatica esistenziale.
Annie Wilkes combatte infatti contro parecchi antagonisti: un uomo malintenzionato, creature sovrannaturali, i fantasmi che la perseguitano a causa della malattia e del trauma. Annie non è una vera “buona”, ha fatto cose molto cattive che la serie spiega senza giustificarle, mettendole semmai in prospettiva (la sua condizione, quello che le è successo). Annie è pericolosa, è violenta, ma è anche una forza della natura perfetta per la dimensione deliziosamente B-movie di questa stagione. Le scene di violenza sono infatti i momenti visualmente migliori di questo Castle Rock, e hanno quasi sempre Annie protagonista (il cucchiaio per il gelato ❤).
Non tutte le sottotrame sono in armonia (la saga familiare di Pop rimane troppo scollegata da tutto il resto), ho però davvero apprezzato il modo in cui ci si connette alla prima stagione, anche se per forza di cose mancano ancora tante spiegazioni — in fondo è una serie prodotta da J. J. Abrams. Il finale mi ha lasciata di stucco perché non me lo aspettavo così tetro. Non è un esempio di scrittura da manuale (la prima parte della puntata non si ricollega con la seconda), eppure ho la sensazione che sia voluta: una sorta di falsa pista meta, in antitesi a una struttura “giusta” e quindi prevedibile in quanto tale. Ho notato anche una certa bravura nell’evitare i cliché più triti, pur continuando a citare a destra e a manca, infilando tanti easter egg. Su Hulu.
Recuperi
The Witness for the Prosecution, miniserie BBC in due puntate. Uno degli adattamenti più riusciti, tiene perfettamene botta per le sue due ore (che fortunatamente questa volta non sono tre). C’è Andrea Riseborough, diventata in questi anni una vera icona dark, con ruoli sempre piuttosto cupi. E qui non delude. Sarah Phelps ha ovviamente ancora una volta cambiato parti della trama, per lasciare un effetto sorpresa in una storia così conosciuta. In questo caso, non mi è dispiaciuta la modifica e il suo significato, la ricaduta sul protagonista. Continua a essere una versione violenta e poco rassicurante di Agatha Christie, non per tutti i gusti. A Natale non è poi andato in onda il nuovo adattamento, Death Comes as the End fatto da Gwyneth Hughes, e non se ne hanno più notizie; sembra invece che il prossimo di Phelps sia ancora in ballo (The Pale Horse, potenzialmente un capolavoro folk horror).
Crazy Ex-Girlfriend, stagione 4. L’avevo mollata dopo la 4x01, che avevo trovato tremenda, in seguito a una stagione 3 davvero triste, soprattutto rispetto alle precedenti che avevo amato. La serie non è mai stata aiutata dal formato (40 minuti, quando spesso scorrerebbe meglio su 30). Questa stagione conclusiva mi ha riappacificata con lo show, anche se è impossibile tornare all’epica delle prime due. Ci sono finalmente di nuovo delle idee (la parodia della commedia romantica 4x11), qualche episodio davvero divertente (quello della reunion 4x08), qualche bella gag e bel pezzo. La trama ha una logica interna più pulita e stringente, il che la rende automaticamente migliore della stagione 3. Per me il problema principale era stato il tentativo non del tutto riuscito di svincolarsi dalla premessa (Rebecca come crazy ex di Josh) per emancipare la protagonista: un passaggio necessario, ma che nell’esecuzione ha rivelato quanto la serie fosse invece stata costruita per funzionare alla perfezione proprio su quel concetto. Invece nelle puntate finali riesce almeno in parte a realizzare l’obiettivo: tornano la comicità brillante, i tanti spunti elargiti generosamente, un ritmo non soporifero. Su Netflix.